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Wired Ha Creato Lo Snow Fall Della Pubblicità Digitale

Wired Usa ha realizzato un racconto multimediale sponsorizzato per il provider di video in streaming Netflix: Tv Got Better descrive la nuova età dell’oro della televisione. E’ un esempio di evoluzione del native advertising, la pubblicità su misura per gli ambienti giornalistici digitali

Un antropologo è stato consultato da Wired per la creazione di un racconto su come è cambiato il nostro modo di guardare la televisione. I contenuti multimediali (testo, infografiche, video) sono rifiniti e ricchi di informazioni, tanto da spingere la rivista Adage a definire Tv Got Better un equivalente nella pubblicità di Snow Fall, il pluripremiato prodotto giornalistico digitale.

Colpiscono queste caratteristiche:

1)  La pubblicità nativa, pensata per mimetizzarsi con i contenuti editoriali (in questo caso è bene evidenziata l’etichetta: “sponsor content”), può essere interessante quanto un prodotto giornalistico.

2) Tv Got Better è stato realizzato all’interno di Condé Nast, l’editore di Wired: è un prodotto in-house, elemento non secondario quando bisogna garantire una perfetta integrazione con i contenuti giornalistici.

3) L’investimento di risorse nel racconto multimediale è stato rilevante.

4) Wired si prepara a promuovere questa pubblicità sui social media e sulle property digitali della casa. Vale la pena di ricordare che circa un anno fa Condé Nast ha creato una divisione interna, Amplifi, dedicata allo sviluppo di contenuti nativi per i brand associati all’editore. Per Amplifi lavorano scrittori, registi e, nel caso di Tv Got Better, un antropologo.

5) E’ un passo avanti nella strategia di sviluppo nel digitale che vede Condé Nast, e Wired in particolare, in prima fila tra gli editori di periodici. Wired fa il 50% dei ricavi pubblicitari con il digitale, di questi circa il 30% ha una componente nativa.

 

Tv Got Better

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15 Segnali Di Vita Del Giornalismo Che Cambia

Le tendenze nel giornalismo. Legate allo sviluppo digitale. Dal lancio di startup alla pubblicità nativa, dai video alle app, dagli e-book ai compensi legati al traffico dei siti

Ne parla il responsabile della redazione digitale di Forbes, la media company nota non solo per il periodico economico e finanziario ma anche per le attività online, considerate un modello del next journalism: il nuovo che avanza.

Lewis DVorkin, con il consueto sarcasmo indirizzato contro i giornalisti, individua 15 blips, 15 puntini sullo schermo del (suo) radar del giornalismo.

In sintesi, vediamo quali sono e perché. Ma conviene leggere per intero l’articolo di DVorkin.

1) STARTUP: i tycoon del digitale iniziano a investire in startup votate al giornalismo.

2) NATIVE ADVERTISING: il pubbliredazionale, in forma rivista e corretta per il digitale, sta prendendo piede anche nei siti dei media tradizionali. Tra gli ultimi, il New York Times.

3) PIATTAFORME: da Medium a Tumblr, fanno vedere come sarà la comunicazione tutta a base di immagini e grafica della prossima generazione di lettori.

4) GIORNALISMO LONG-FORM: una parola del gergo internettiano, molto di moda, che indica articoli lunghi più di 3000 battute, comuni nei media tradizionali, diventati una formula nobilitante per quei siti che vogliono entrare nel giornalismo di qualità.

5) VERTICALI: si è scoperto che nel digitale c’è posto per siti d’informazione o ecosistemi giornalistici che si rivolgono a comunità circoscritte di utenti, nicchie di lettori diverse da quelle dei brand dal taglio generalista.

6) DATA: parola magica, soprattutto nella variante “big data”. Internet è tutto dati, a partire dal modo in cui si misura il successo di un articolo o una pubblicità online. Presto, dice DVorkin, sentiremo parlar meno di pageview o utenti unici e molto più di viewability: quante volte una pubblicità entra davvero nello spettro visivo di chi legge.

7) APP: la grande promessa per il futuro dei periodici sta deludendo le attese. Ma ci sono strategie per dare alla lettura dei giornali su tablet una seconda chance.

8) VIDEO: tutti gli editori della carta stampata corrono verso la produzione e distribuzione di video sulle piattaforme digitali dei loro brand. Ma per il momento i lettori sembrano preferire il testo scritto, più facile da scorrere, valutare, selezionare.

9) E-BOOK: una bella fonte di guadagno per i giornalisti che hanno trovato temi d’attualità di grande interesse, un ferro caldo da battere sul momento.

10) COMMENTI: vengono inventati sistemi sempre nuovi per dare spazio ai commenti dei lettori. Perché offrono un aggancio alla monetizzazione: tradurre le pagine viste e la partecipazione dell’utente in moneta sonante per i pubblicitari.

11) MOBILE: la pubblicità più basic, il banner (il vecchio annuncio), rende poco, ma si adatta alla versione per smartphone di tanti siti di news. Una risorsa da non perdere.

12) EVENTI: organizzati dai giornali, usando il loro brand, per guadagnare notorietà, conquistare pubblico, aumentare i ricavi.

13) NUOVA PUBBLICITÀ: anziché chiedere al lettore di pagare per accedere ai contenuti di un sito giornalistico, gli si chiede di pazientare un momento e guardare un video pubblicitario. Una formula, molto vista in Italia, che fa pensare al modello economico della tv commerciale.

14) NEWSLETTER: ci sono utenti disposti a pagare per newsletter di approfondimento su temi sensibili e rilevanti, soprattutto in ambito finanziario.

15) INCENTIVI: i giornalisti che aderiscono a “compensation program” vengono in parte premiati e retribuiti sulla base del traffico generato, dei lettori conquistati. Un tema spinoso, controverso, che vede Forbes schierato tra i “cattivi”. Sul versante dei “buoni” ci sono invece giornalisti (ed editori) che continuano a credere che chi scrive non deve essere condizionato dai risultati di traffico. Anzi, non dovrebbe neppure esserne messo a conoscenza. Per la qualità dell’informazione, non per restare attaccati a privilegi.

Futuro dei Periodici

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Anticipazioni Sulle Innovazioni Nei Magazine 2014

Le strategie globali di Condé Nast, i cambiamenti nella pubblicità dei periodici, il network internazionale di Grazia. Ne parla Magazine World, la pubblicazione della Federazione mondiale dei magazine media

Ma l’articolo di maggiore interesse riguarda le novità per i periodici nel 2014, anticipazione del rapporto Magazine Media World Report 2014 di Fipp sull’innovazione in uscita a marzo: native advertising, video, big data, mobile.

Ecco il link a una pubblicazione stimolante, seppur voce ufficiale di questo mondo.

Magazine World.

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3 Link Sulla Pubblicità Nativa Nei Periodici

Se ne fa un gran parlare. Ma la pubblicità nativa sta davvero prendendo piede nei giornali. Dopo il grande passo del New York Times, altre testate seguono l’esempio. Solo ieri si sono lette 3 notizie

Teen Vogue lancia un piano di pubblicità nativa su Instagram, dove è il brand leader negli Stati Uniti (tra i periodici) con 625.000 follower.

Bauer Media, che in Gran Bretagna pubblica decine di riviste tra cui Grazia e Closer, presenta The Debrief, rivista digitale multipiattaforma, destinata a giovani donne, che viene finanziata con native advertising in partnership con Bacardi ed H&M.

In Italia Condé Nast e Manzoni, concessionaria di pubblicità del Gruppo L’Espresso, mettono al mondo nelle prossime settimane Multi-Mag, il primo periodico multimediale e nativo digitale italiano che ospita pubblicità… nativa.

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Perché Tutti Creano Siti Di News

La corsa delle società nate del digitale verso i contenuti giornalistici. Il lancio di siti di news che fanno concorrenza a quotidiani e periodici. Un esperto di media analizza il fenomeno

E’ un post di Ken Doctor su Nieman Lab, punto di riferimento per chi tiene d’occhio le novità del giornalismo nel digitale.

Il superconsulente analizza in dettaglio la situazione. Le compagnie che hanno sviluppato piattaforme digitali fanno a gara nel lanciare iniziative editoriali. Creando nuovi brand e testate verticali. Assumendo giornalisti con un nome.

Ma un punto sottolineato da Ken Doctor è quello della sostenibilità economica: un sito di news può stare in piedi.

Può stare in piedi se trova un pubblico di lettori ben circoscritto, per quanto limitato nella dimensione: una nicchia.

Può nutrirsi di pubblicità nativa, diventata competitiva rispetto a quella dei banner.

Può creare redazioni piccole ma con possibilità di ampliarsi.

«Business models are maturing. New publishers are finding enough niches tolargely pay smaller-but-expanding staffs of journalists — if they can create large enough audiences. They are also seeing that native advertising, well done by BuzzFeed and Atlantic Media, for instance, offers a way to compete with programmatic advertising. Premium (Politico Pro) and events (Business Insider) strategies are giving the new publishers the sense they don’t have to wholly rely on advertising».

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La Giusta Distanza: Cosa Cambia Tra Giornali e Pubblicità

2014: l’anno della riscoperta della “stampa”? Se ne parla nel mondo della pubblicità, alle prese con gli stessi problemi dei giornali. Viene ridefinita la “distanza personale” tra contenuti editoriali e commerciali. Per trovare una via d’uscita a una crisi comune

Ho letto l’intervento di un esperto inglese di comunicazione e marketing, lavora a Londra per il gruppo internazionale Aegis Media, segue società e aziende che vogliono promuovere i propri brand a tutto campo, soprattutto su giornali, tv, radio, digitale.

Trovo concetti e parole emersi in modo frammentario in tanti articoli di questi mesi. Alcune tessere del mosaico vanno a posto e rivelano una figura più completa.

Capisco che:

1) Il 2014 può essere un grande anno per la “stampa” se intesa come “carta stampata” con in più le estensioni digitali del giornale. «Il modo in cui dimostra di sapersi reinventare è eccezionale», si legge. Per lo meno in Gran Bretagna.

2) I magazine hanno valore perché creano un legame di identificazione, fiducia, coinvolgimento, riconoscimento, molto forte con i lettori. «Quello è “il mio giornale”». Non è facile trovare un equivalente nei media.

3) Il contenuto rimane “king“: ci sarà ancora bisogno di giornalismo ben fatto. E’ quel che la gente cerca su Internet.

4) Ma i giornali devono articolarsi su più canali e fare “scala”: raggiungere numeri più alti di utenti con il digitale.

5) Idem con patate per i pubblicitari. Multipiattaforma e scala sono le parole chiave. Bisogna mettere insieme carta stampata, radio, tv, digitale. Le mosse delle concessionarie di pubblicità, anche italiane, vanno proprio in questa direzione.

6) L’autore di queste riflessioni, Dominic Williams di Amplifi (Aegis Media), sostiene che i responsabili della parte editoriale dei giornali non sono mai stati così vicini alla parte commerciale. Si lavora insieme per trovare una via d’uscita alla tempesta che ha investito entrambe. Si cercano strategie comunicative nuove. Per esempio creando contenuti giornalistici che rendono possibile l’e-commerce partendo dal sito o dalla pagina del giornale su tablet. O con la pubblicità oggi più di tendenza, la native advertising che ha stregato anche l’International New York Times.

Non sono concetti travolgenti. Ma placano l’ansia.

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Pubblicità: New York Times fissa il nuovo standard?

New York Times lancia oggi una versione aggiornata del sito. Avremo tempo per guardarlo e giudicarlo. Ma una grande novità è il rapporto che si stabilisce tra contenuti giornalistici e pubblicità. Il quotidiano più famoso del mondo fissa lo standard per gli anni a venire?

Date un’occhiata ai pezzi messi in link. Nel primo, si spiega come il New York Times abbia deciso di ridefinire nel digitale il rapporto tra giornalismo e pubblicità. Da ora in poi, oltre ai banner ( le pubblicità ai margini della pagina), il sito ospiterà contenuti sponsorizzati di varia natura. La pubblicità diventa “organica”: mescolata ai pezzi giornalistici, anche se ancora distinguibile (nelle dichiarazioni d’intenti del quotidiano). Il discorso è articolato e riguarda prodotti giornalistici sperimentali come il celebre Snow Fall e successivi racconti multimediali.

Un modello che è stato rodato dal social media Facebook, che mette insieme news e annunci; da Forbes, con il suo Brand Voice; perfino da Washington Post.

Per molti è una scelta inevitabile. Il problema nasce sulla carta e si amplifica nel digitale. I banner, la pubblicità ordinaria, rendono pochissimo e non sono serviti a sostenere i fatturati del New York Times e altre pubblicazioni.

Ma anche il mondo della pubblicità è costretto a rivede le sue strategie comunicative. Le vecchie strade non portano più da nessuna parte. Ormai si legge ovunque che aziende e società si sforzano in ogni modo di diventare editori di se stesse, attraverso siti dei brand, pubblicazioni mirate, nuove modalità di promozione sui mezzi d’informazione. Chi fa il giornalista se ne è accorto da almeno 10 anni.

Cambiano i confini: è come dopo il Congresso di Vienna o la Conferenza di Yalta. Si impone quel fenomeno chiamato native advertising.

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Negli Usa Si Mettono Regole Alla Native Advertising

Negli Stati Uniti aumenta la preoccupazione sulla native advertising. E si è deciso che la nuova forma di pubblicità, simile ai contenuti giornalistici, dovrà essere etichettata. Per non danneggiare le testate e chi ci lavora

NUOVE REGOLE Qualsiasi cosa sia, la native advertising*, la nuova tendenza nella pubblicità sulla carta e nel digitale, deve essere segnalata al lettore. Lo si dice negli Stati Uniti, dove l’industria e il comune sentire sono allergici alle regolamentazioni ridondanti. In dicembre ci sarà un’audizione alla Federal Trade Commission sui contenuti sponsorizzati, categoria pubblicitaria che si stima possa avere un valore complessivo di 1,9 miliardi di dollari nel 2013. E l’American Society of Magazine Editors (Asme) ha diffuso una versione aggiornata delle linee guida editoriali con indicazione sulle best practices riguardanti la native advertising: prevedono che questa forma di comunicazione, simili ad articoli e contenuti giornalistici, sia sempre chiaramente etichettata sulle pagine e nei siti.

NELL’INTERESSE DI CHI? D’altra parte gli editori americani sanno difendere i loro interessi: si rendono conto che Stato (pubblicità) e Chiesa (giornalismo) devono restare separati proprio perché il lettore se ne accorge e assegna meno valore alle testate che mescolano le due forme di comunicazione. E i giornalisti americani non si fanno garanti del lettore (impostazione etica) ma della qualità del proprio lavoro (impostazione professionale).

Credo che due cose siano chiare.

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La pubblicità nel digitale: capire come cambia il rapporto con i giornali

Il mondo della pubblicità è stato rivoluzionato dal digitale. E vive una crisi paragonabile a quella della stampa. Un argomento di importanza vitale anche per i giornalisti. Che ne parlano come mai prima.

INTERESSA AI GIORNALISTI Molti dei siti giornalistici americani che riprendo in questo blog parlano di com’è cambiata la pubblicità nel digitale. Con la crisi, chi lavora in quotidiani e periodici, radio e tv, ha capito la centralità dei guadagni da pubblicità per la sostenibilità dell’attività giornalistica. Sappiamo che se l’informazione non troverà un nuovo equilibrio economico, il suo spazio si ridurrà di molto in un futuro vicino.

Da mesi sto cercando di capire come funziona la pubblicità nel digitale. Non sono un esperto dell’argomento, per niente. Ma ho provato a orizzontarmi.
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La crisi delle riviste di attualità – Stati Uniti e Germania

Notizie sui newsmagazine, i settimanali d’attualità che si occupano di politica, cronaca e società, negli Stati Uniti e in Germania.

STATI UNITI. I dati di una ricerca del Pew Research Center registrano un pesante calo nella raccolta pubblicitaria dei newsmagazine americani nei primi sei mesi del 2013, confrontati con lo stesso periodo del 2012. Più in generale, il panorama sugli investimenti promozionali rimane preoccupante per tutte le pubblicazioni periodiche: -4,9%. Nel 2009 c’era stato una brusca riduzione nel numero di pagine pubblicitarie (l’indicatore più veritiero dello stato di salute dei giornali in rapporto alla pubblicità, più dei ricavi). Poi un lieve recupero. Il 2013 si sta rivelando, almeno nella prima parte, l’anno più difficile dopo il terribile 2009. Negli Usa il calo tra 2003 e 2012 è stato del 36%. Noi italiani ne sappiamo qualcosa. Quanto alla  raccolta pubblicitaria nelle riviste, il calo del 2013, nel nostro Paese, è tre volte più pesante del 2012.

Veniamo ai newsmagazine americani. La brutta notizia riguarda tutte le testate: Time -17%, The Week -23%, The Atlantic -10%, The New Yorker -9%, The Economist -24%. La media rivela una perdita del 18%. Due riflessioni attenuano l’amaro in bocca. Il digitale inizia a generare qualche utile. Alcune testate, The Atlantic e The Economist, stanno sviluppando nuove fonti di ricavo: conferenze, eventi, contenuti di nicchia. Non mancano i contenuti sponsorizzati.

GERMANIA. Un articolo di Italia Oggi descrive il momento di difficoltà delle tre principali riviste d’attualità tedesche: Focus, Stern, Spiegel. Hanno toccato, tutte, il punto più basso nelle vendite in edicola. Stern ha venduto 204 mila copie contro la media di 272 degli ultimi tre mesi (con gli abbonamenti, però, si arriva a 825 mila: in Italia ce lo sogniamo). Spiegel 237 mila contro la media di 291 nell’ultimo anno (con gli abbonamenti si superano le 900 mila).  Focus ha venduto di recente 64 mila copie, con un calo di 18 mila in una settimana (edicola e abbonamenti arrivano a 540 mila copie).

Anche i dati italiani di maggio, anno su anno, sollevano qualche perplessità.


Pew Research Center:
negli Usa forte calo nella pubblicità dei periodici.

Italia Oggi: crollano i periodici tedeschi.

pew-research-center-logoItaliaOggiTestata

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Per competere con Google non cercare di imitarlo, editore!

Come gli editori possono competere con Google e le grandi compagnie digitali non giornalistiche nella caccia alla pubblicità online? Un articolo uscito nel sito di Nieman Lab racconta le strategie di quattro realtà giornalistiche americane che si sono mostrate innovative.

Quel che mi colpisce della indagine di Ken Doctor, esperto di editoria di cui questo blog si è già occupato, è la messa a fuoco di un punto: gli editori di prodotti giornalistici non devono inseguire Google e le altre compagnie digitali sulla strada dei contenuti a basso prezzo. Da sempre la stampa propone contenuti premium, rivolti a fasce demografiche e sociali bene individuate, dunque appetibili per le aziende. Questo va fatto anche nel digitale. Altrimenti si è destinati a soccombere.

Sono concetti che aprono gli occhi a chi, come me, non s’intende di new media, lavora nella carta stampata e non riceve una formazione per capire le logiche del digitale.

Per dire… Facebook, che negli Usa raccoglie un quarto della pubblicità nel digitale, vende lo spazio agli inserzionisti a 80 centesimi di dollaro ogni mille impressioni, mille pagine viste. Ma a questi prezzi nessun editore può sopravvivere, perché produrre contenuti giornalistici costa molto, e non ci si sta dentro. Questo ormai mi è chiaro. Gli editori, dice Ken Doctor, vogliono, devono guadagnare da 20 a 50 volte di più.

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Periodici: il dialogo tra versione per tablet e sito web delle riviste

Un’intervista. Al guru dell’editoria digitale. Parla Lewis DVorkin, capo dei contenuti di Forbes. Si discute delle applicazioni per tablet dei periodici. E del dialogo tra queste e il sito della testata. Una catena di trasmissione che moltiplica il coinvolgimento del lettore. La circolazione dei contenuti.

Riporto uno stralcio di un’intervista a DVorkin, vecchia conoscenza di questo blog, personaggio controverso (“informazione e pubblicità devono essere sullo stesso piano, avere pari dignità nei giornali”) ma stimolante.

Gli chiedono quale sia l’importanza del tablet per i periodici.

Ci sono varie ragioni per cui le riviste possono ricevere vantaggi dalle applicazioni per iPad e tablet.

La prima è la pubblicità. Qualsiasi azienda vuole che la sua pubblicità sia bella. Sui periodici le inserzioni sono valorizzate più che altrove per qualità della carta, della stampa, il formato grande. Ma sul tablet è ancora meglio. E in più c’è, ci può essere l’interattività.

Si parla dell’app di Forbes per tablet lanciata in gennaio. Non è una semplice copia del giornale ma una finestra sui contenuti del sito, aggiornati ogni giorno. E una finestra sulla parte social (condivisione, commenti, dialogo su Facebook, Twitter etc).

L’app per tablet è stata presentata dopo un gran lavoro sullo sviluppo del sito. Esempio. Quando è stato pubblicato il numero di Forbes sugli uomini più ricchi del mondo, l’applicazione per tablet aveva 1.900 link all’«underlying content on Forbes.com, both real-time and archival», 1.900 link al sito web sottostante, sia ai contenuti aggiornati di continuo sia agli archivi.

Insomma, il tablet è la superficie, il sito è la montagna nascosta. Bella immagine. Non ci avevo mai pensato. Mi fa capire qualcosa di nuovo.

Il Punto: come i periodici siano diventati realtà multipiattaforma, con espressioni diverse ma integrate.

Netnewscheck: il rapporto tra sito e tablet nei periodici.

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Perché le riviste stanno perdendo lettori – Polemiche sui condizionamenti della pubblicità

Alcune frasi tratte da un articolo che ha scatenato una polemica all’interno della Mpa, l’associazione degli editori americani di periodici.

Magazines are failing for many reasons, but what ends up being the silent, invisible nail in the coffin is when they attempt to save themselves by writing exclusively for their target advertising demographic.

I periodici stanno crollando per una serie di motivi, ma quello che mi sembra pesare di più è il tentativo di salvarsi rivolgendosi a un lettore dal profilo sociale scelto per ragioni pubblicitarie.

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Bombardato dai fan del native advertising

Aiuto, oggi il mio blog è stato preso di mira dai sostenitori del native advertising. Hanno commentato post come questo. E come questo.
Riporto quel che scrivono sul loro blog, creato sulla piattaforma di WordPress. E alcune osservazioni che mi sgorgano dal cuore.

In altre parole la Native Advertising è una sorta di pubblicità integrata all’interno dei contenuti di un sito, in modo che non risulti interruttiva agli occhi del lettore.

La vera motivazione per cui oggi siamo qui a parlare di Native Advertising è  perchè la banner blindness è ormai dilagante, soprattutto tra le persone “giovani” che sono nate e cresciute con il web. La percentuale di click (CTR) sugli annunci pubblicitari sta drasticamente calando giorno per giorno.

Secondo dati di Google nel 2010 il CTR è sceso allo 0,09% (rispetto allo 0,10% del 2009), quindi significa che meno di una persona su 1.000 clicca su un annuncio pubblicitario.

E quindi i brand si sono ingegnati ed anziché promuoversi sempre nei classici spazi riservati all’advertising PPC tradizionale, lo fanno all’interno degli stream dei contenuti, dove inevitabilmente lo sguardo si deve posare.

Cari amici di “native advertising”, siete sul pezzo. Sulla mia pelle, scambiando alcuni post di siti americani per giornalismo, anziché coglierne la natura promozionale, ho provato cosa vuol dire la confusione tra pubblicità e informazione sul Web. E se ci casca uno che fa il giornalista da molto, molto tempo, temo possa cadere nell’equivoco anche un lettore. Al tempo stesso, sapete far leva su qualcosa di drammaticamente vero: nel digitale la pubblicità vale poco, gli editori guadagnano poco e per alimentare la produzione giornalistica ci sono risorse limitate. Un bel guaio.

M’interessa perché: 1) aiuta a riflettere sull’importanza di garantire l’autonomia del giornalismo anche nel Web; 2) pone in modo sensato il problema del finanziamento del giornalismo nell’era digitale.
Futuro dei Periodici

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Forbes, modello di transizione di successo al digitale

Visita nella redazione di Forbes di un giornalista francese di Les Echos.

Due mondi s’incontrano: il giornalismo del Vecchio Continente e il dinamismo spregiudicato degli americani.

Si spiega perché Forbes sia diventato un modello tra i periodici che vogliono sopravvivere al declino della carta stampata.

Forbes ha creato un sito di grande successo con 15 milioni di visitatori unici al mese. Cresciuti del 20% in un anno. Superato il Wall Street Journal.

La redazione Web è separata da quella del giornale, “per non cadere nelle mezze misure” dice il direttore del digitale di Forbes, Lewis DVorkin.

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I guai di un giornale americano con la pubblicità occulta

Grane per The Atlantic a causa di un articolo a pagamento e sponsorizzato uscito sul sito del prestigioso mensile americano. Una volta erano chiamati advertorial, publiredazionali. Oggi nel mondo dei nuovi media si preferisce dire: native advertising. Ma la storia è la stessa e ci siamo dentro anche noi. Ecco come è stato risolto l’incidente che ha fatto infuriare i lettori. Un apologo su come viene affrontato il problema del rapporto tra informazione e pubblicità nel mondo anglosassone.

The Atlantic, come ho avuto occasione di raccontare, è uno dei più antichi e prestigiosi periodici americani d’informazione e cultura, divenuto una case history di come una testata in difficoltà possa reinventarsi nell’epoca della transizione al digitale. Da fine gennaio è al centro di un vivace dibattito generato dalla protesta dei lettori del giornale per la pubblicazione di un articolo elogiativo di Scientology, un pezzo sponsorizzato, pagato, che celebra una serie di inaugurazioni di sedi, sparse nel mondo, della nuova organizzazione religiosa.

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La pubblicità c’è ma non si vede: native advertising

Vi consiglio di dare un’occhiata a questo articoletto, riguarda il fenomeno del native advertising.

Ne siamo circondati.

I marketers la presentano come una cosa nuova, legata allo sviluppo della comunicazione digitale, imposta dalla difficoltà di far digerire ai lettori banners e altri strumenti pubblicitari che proprio non vanno giù: quando entriamo in un sito scartiamo mentalmente qualsiasi forma di pubblicità ci piombi addosso, ci ostacoli nella lettura, si faccia avanti con aggressività. Tutta, o quasi.

Ecco l’esigenza, per il marketing, di cambiare strada.

Il native advertising si pone l’ambizioso obiettivo di proporre contenuti e offerte così interessanti (pensate a Groupon) che il lettore neppure percepisce più la differenza tra informazione e pubblicità.

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