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The Social Side of Elle – I Social Media nei Periodici

Come la rivista di fashion Elle, marchio globale, utilizza con successo i social media

Facebook? Serve a portare lettori sul sito del giornale.

Twitter? Elle ha una “lista segreta” di celebrity, che le lettrici del giornale sentono come vicine, le “Elle girls”, che aiutano a diffondere il marchio di testata su Twitter.

Instagram? Ma anche Pinterest e Tumblr… Enfatizzano la forza dell’immagine in Elle. Perché questa rivista è un generatore di “belle immagini”. Su Elle praticamente puoi toccare una gonna che solo un centinaio di donne al mondo indosserà e acquisterà.

Ecco in tre punti la funzione dei social media per Elle e come vengono utilizzati per far girare il marchio della maggiore rivista di moda al mondo. O, almeno, la più prestigiosa.

Lo spiega un post di socialmediatoday.com interamente dedicato alla strategia social del magazine. Parla Kate Winick, social media editor del giornale.

Spiega che i social funzionano come una specie di “second screen”: le lettrici trovano su Facebook, Twitter, Instagram & Co. contenuti aggiuntivi che integrano l’offerta della rivista, senza duplicare, cannibalizzare e danneggiare il prodotto per l’edicola.

Ma cosa vuol dire redazione social in un marchio di questa importanza? Significa solo una “giornalista” assunta, Kate Winick appunto, e una squadra di blogger che posta dalle 20 alle 25 volte al giorno. Mai la sera. Ma, durante il giorno, si mantiene un ritmo serrato.

Per chi non lo sapesse, Elle è oggi, la rivista di moda più conosciuta, con 43 edizioni in 60 paesi, un account Facebook in lingua inglese con 2,2 milioni di like, e su Twitter 2,28 milioni di follower. Nel maggio 2014 (leggo nel post di socialmediatoday.com) il sito elle.com ha contato 8 milioni di visitatori unici.

Bisognerebbe aggiungere che anche l’Italia ha storie di successo nei magazine ed esperti di social di notevole spessore. Solo che un’ingiustificata esterofilia ci spinge sempre a cercar oltre confine. Di chi parlo? Per farsene un’idea basta dare un’occhiata alla classifica dei Media Specialist più apprezzati d’Italia uscita su datamediahub.it.

 

Futuro dei Periodici

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Perché Facebook Non Affonda I Giornali

Fa notizia il lancio di Paper, l’applicazione di Facebook per leggere notizie online. Ma è davvero un attacco mortale allo sviluppo digitale dei giornali?

Paper di Facebook seleziona notizie e le raccoglie tenendo conto delle indicazioni dei lettori, i loro interessi, le comunità di cui fanno parte, gli acquisti. Ok, bellissimo.

Ma questo è un surrogato dei magazine? Ed è questa la pietra che sbarra la strada dello sviluppo digitale dei periodici?

Per capire quale rapporto può nascere tra questi sofisticati aggregatori, molto belli, e le testate tradizionali, consiglio di leggere questo post su Vogue e l’aggregatore Flipboard.

Si spiega che:

1) E’ Vogue a decidere quali articoli mettere a disposizione di Flipboard.

2) Lo scambio è interessante per entrambi i partner. Vogue accede allo sterminato bacino di utenti di Flipboard (100 milioni contro 3,4 milioni). E questo accede ai contenuti di pregevole fattura di Vogue, di cui sarebbe altrimenti privo.

3) Vogue trae un enorme vantaggio pubblicitario: grazie all’alleanza con Flipboard aumentano in modo esponenziale i clic sulle pagine pubblicitarie digitali.

L’interesse è comune.

Al riguardo, un anno fa ho pubblicato il post: Cos’è un periodico. Una ricerca mi aveva aperto gli occhi.

Futuro dei Periodici

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La Corsa Ai Contenuti: Facebook Entra Nelle News

Indiscrezioni. Facebook lancerà una app di news, un aggregatore curato da giornalisti: una serie di canali monotematici (verticali, in gergo) che raccoglierebbero, si dice, articoli e contenuti di qualità messi in rete dai quotidiani e dai magazine. Si dovrebbe chiamare Paper, e viene descritto come un aggregatore “intelligente”, non affidato a un algoritmo, a un automatismo, ma alla capacità di selezione e confezionamento di persone esperte.

Segue breve e incompleta cronologia delle società tecnologiche entrate nel… giornalismo:

Il patron di Amazon, Jeff Bezos, ha comprato l’estate scorsa il Washington Post.

Yahoo! è entrato a gennaio nell’informazione e ha lanciato, tra l’altro, alcuni magazine digitali. Assunti giornalisti con curriculum di tutto riguardo, ad esempio l’ex columnist di tecnologia del sito del New York Times.

Il fondatore di Ebay ha annunciato lunedì di voler aprire alcuni magazine digitali; a fine 2013 aveva fondato la società che li pubblicherà, First Media, con un investimento di 50 milioni di euro.

Loro si danno da fare. C’è invece chi ha il pane e non ha i denti per mangiarlo.

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Facebook e i Periodici Italiani

I siti dei settimanali: il numero di utenti, il ruolo dei social media, l’attaccamento e fidelizzazione dei lettori. C’è ancora molta strada da percorrere

Segnalo un post sulle performance online dei settimanali italiani scritto da Pier Luca Santoro, l’autore del sito su comunicazione ed editoria Il Giornalaio.
Santoro risponde a domande di grande interesse sul seguito online delle testate periodiche.
Attraverso uno studio fatto con uno strumento per specialisti, è possibile vedere non solo quanti utenti unici ha ciascun sito. Ma, sopratutto, capire alcune caratteristiche dei visitatori. E intuire il loro livello di soddisfazione.

Vedremo quanti lettori arrivano sul sito del giornale dai social network, per esempio. A questo riguardo, viene fuori che nei settimanali, così come nei quotidiani, pochissimi visitatori sul totale vengono “rastrellati” su Facebook e Twitter e dirottati al sito, come dovrebbe essere interesse degli editori. La parte del leone, comunque, spetta a Facebook.

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Perché i Giornalisti Usano i Social Media – Indagine in Gran Bretagna

Passano almeno 2 ore al giorno sui social media, dove vanno soprattutto per postare i loro pezzi. E per dialogare con i lettori. In appena un anno è cambiato il modo in cui i giornalisti usano Twitter e Facebook

DIGITAL FIRST Forse per i giornalisti passare le giornate su Twitter, Facebook e altri social media è il modo più diretto per essere “digital first”, termine molto usato in questi giorni in Italia.

Ma perché si va sui social e cosa si fa?

SONDAGGIO In Italia mancano indagini esaustive. Invece un pezzo uscito sul sito di Wan Ifra (l’associazione mondiale degli editori di giornali e news media) dà un quadro abbastanza completo di quel che accade in Gran Bretagna. Lo fa riprendendo una recente indagine online di Cision e Canterbury Christ Church University, cui hanno partecipato 589 giornalisti.

CI VANNO TUTTI Il 96% dei giornalisti britannici usa ogni giorno i social media come strumento professionale. Il più popolare è Twitter, ormai imprescindibile per chi lavora in quotidiani, periodici, televisione. Insomma, solo 4 giornalisti su 100 non sono sui social.

Il 63% passa su questi siti almeno 2 ore al giorno. Il 22% più di 4 ore. Rispetto al passato è aumentata la frequenza e il numero di siti visitati.

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Se il Giornalista Deve Essere un Brand

Se ne parla sempre più spesso: il giornalista deve diventare un brand. Costruire un’immagine pubblica, prendere posizione, condividere pensieri, conversare con il pubblico in modo trasparente. Non è una possibilità, sta diventando un obbligo. Perché attraverso il contatto diretto con i lettori/utenti passa l’identità del giornale. Va bene così?

TERRA DI CONQUISTA La questione viene posta sempre più spesso: se il giornalista debba essere un brand.

Vuol dire che i social media creano lo spazio per un contatto diretto tra giornalisti e audience.

Lo spazio della trasparenza.

I giornalisti sono interessati ad occuparlo, perché accarezzano il sogno di diventare dei punti di riferimento.

I giornali sono ugualmente interessati, perché attraverso la conversazione dei giornalisti con il pubblico passa la costruzione del brand della testata (o dell’editore).

Il brand, il marchio: noi siamo la rivista e i giornalisti che le celebrity le trattano così (irriverente: pensate a Vanity Fair); noi siamo la rivista e i giornalisti che la politica l’affrontano in questo modo (sfidandola: pensate al Fatto Quotidiano). Io sono il giornalista che di cucina parla così. Io sono il giornale che di moda scrive in questo modo…

PERSONALIZZAZIONE La conversazione, nei social, diventa personale. E questo tono si riversa, in vari modi, sul lavoro giornalistico.

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20 strumenti per i giornalisti digitali

20 strumenti per i giornalisti digitali. Fare ricerche sui social media, creare grafici, girare immagini, fare il montaggio di audio e video. Tutto con programmi e applicazioni a portata di mano.

Gli esempi che riporto sono di Journalism.co.uk.

A) 5 modi rapidi per costruire storie visuali che possono essere inserite in pezzi giornalistici.

1. Storify Per caricare, trascinandoli nel tuo scritto, foto, post, video, commenti dai social network e YouTube.

2. Datawrapper Carichi un foglio di Excel con numeri e il programma crea un grafico interattivo.

3. ThingLink Immagina di voler inserire in una foto delle annotazioni che compaiono quando sposti il cursore o tocchi su un volto o un oggetto. Con questo programma lo puoi fare molto facilmente.

4. Timeline JS Crea una linea del tempo che consente di seguire una storia articolata con un colpo d’occhio. Usa link, immagini, video presi dai principali social e siti popolari, esempio Wikipedia.

5. Tableau Usata anche dal Wall Street Journal. Crea grafici interattivi per raccontare i numeri dietro una storia.
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Fenomeno “second screen”: come cambia il modo di guardare la tv

Assistiamo all’esplosione del fenomeno second screen. Quando vediamo la tv, non c’è solo quello schermo. Ma spostiamo lo sguardo anche sullo smartphone e magari sul tablet e il computer portatile. Perché l’esperienza di guardare la tv è cambiata. Una opportunità o un pericolo per gli editori di periodici e guide televisive?

COME GUARDIAMO LA TV Ci penso dopo aver visto alcune ricerche che descrivono come cambia il modo di passare il tempo libero. E il boom previsto nei prossimi anni di internet come media e della pubblicità nel digitale. Hanno a che fare con i periodici? Forse sì.

Avanza il fenomeno second screen. La gente guarda un programma in tv e allo stesso tempo utilizza smartphone e tablet. Per lavorare e farsi gli affari suoi. Ma anche per condividere con altre persone quel che sta passando in tv. Ve ne accorgete quando su Facebook si giudicano con dei like i personaggi di un talent show. Quando su Twitter si sbertucciano i politici ospiti di Ballarò, e lo si fa mentre il talk show va in onda. E ancora, con i commenti a caldo delle partite di calcio e mille altre cose.

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Se il digitale inizia a (ri)pagare – Lo scenario dei media secondo l’Economist

Da più parti ripreso l’articolo dell’Economist «Counting the Change», «Misurando il cambiamento».

Descrive le trasformazioni subite dai media e dall’industria dell’intrattenimento nel passaggio al digitale. Riguarda i giornali, i libri, il cinema, la musica, la televisione.

Aiuta a comprendere che i cambiamenti della stampa s’inseriscono in un quadro più grande. E avere presente il contesto serve, come sempre, a dare un senso alle cose. A non smarrirci. A non subire a occhi chiusi gli eventi e, dunque, ad avere meno paura.

L’articolo è un fermo immagine, perché la trasformazione è così radicale che è difficile dire quale direzione, velocità, impeto prenderà anche solo tra pochi mesi.

Mi sembra un buon riferimento per la seconda metà del 2013. E il settimanale economico-finanziario britannico pone la questione che, giudicando dal mio piccolo punto di vista, può guidarmi negli avvenimenti, notizie, problemi dei prossimi mesi.

Ma per creare la cornice bisogna lavorare per sottrazione. Dobbiamo ridurre, sfrondare, eliminare, fare a meno di tanti, troppi numeri, dati, termini tecnici, gergo economico, manageriale, da esperti. (Esperti che in questo blog non sono presenti, non scrivono, non intervengono).

Dunque l’Economist prova a dirci dove siamo arrivati.

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Per competere con Google non cercare di imitarlo, editore!

Come gli editori possono competere con Google e le grandi compagnie digitali non giornalistiche nella caccia alla pubblicità online? Un articolo uscito nel sito di Nieman Lab racconta le strategie di quattro realtà giornalistiche americane che si sono mostrate innovative.

Quel che mi colpisce della indagine di Ken Doctor, esperto di editoria di cui questo blog si è già occupato, è la messa a fuoco di un punto: gli editori di prodotti giornalistici non devono inseguire Google e le altre compagnie digitali sulla strada dei contenuti a basso prezzo. Da sempre la stampa propone contenuti premium, rivolti a fasce demografiche e sociali bene individuate, dunque appetibili per le aziende. Questo va fatto anche nel digitale. Altrimenti si è destinati a soccombere.

Sono concetti che aprono gli occhi a chi, come me, non s’intende di new media, lavora nella carta stampata e non riceve una formazione per capire le logiche del digitale.

Per dire… Facebook, che negli Usa raccoglie un quarto della pubblicità nel digitale, vende lo spazio agli inserzionisti a 80 centesimi di dollaro ogni mille impressioni, mille pagine viste. Ma a questi prezzi nessun editore può sopravvivere, perché produrre contenuti giornalistici costa molto, e non ci si sta dentro. Questo ormai mi è chiaro. Gli editori, dice Ken Doctor, vogliono, devono guadagnare da 20 a 50 volte di più.

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Quando gli utenti ne sanno più dei giornalisti, un buon giornalista che cosa dovrebbe fare?

Riprendo dal mio guru, Lewis DVorkin, capo del digitale di Forbes, personaggio vulcanico, provocatorio e perfino discutibile, una lezione sugli strumenti a disposizione  del giornalista nell’era digitale.

DVorkin fa il ritratto di alcuni giornalisti di Forbes, parte di una rete di 1000 contributors, che lavorano sia per il sito web della testata sia per la versione cartacea.

Vengono fuori modi di lavorare diversi, tutti però connessi alla realtà digitale e agli strumenti che questa offre. Perché siamo entrati nell’epoca in cui il lettore ne sa più del giornalista, di qualsiasi cosa esso si stia occupando. Ma, a differenza del passato, questo lettore può raggiungere con grande facilità l’autore degli articoli, dialogare con lui, arricchirne l’esperienza, dare spunti di lavoro e perfino criticare quel che è stato messo nero su bianco.

(Ieri sulla Lettura, inserto del Corriere della Sera, Antonio Polito ha fatto dell’ironia sui giornalisti italiani che usano Twitter come una vetrina e non come uno strumenti di scambio con il lettore, subito pronti a ritirarsi se arriva qualche critica – chiaro il riferimento a Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, che ha da poco lasciato Twitter, appunto, perché preso di mira da alcuni follower. Sinceramente dubito che i giornalisti italiani famosi usino i social network per fare il loro mestiere. I giornalisti italiani famosi sono opinionisti, direttori, mezzibusti. Non redattori, corrispondenti, reporter, inviati. A loro serve una vetrina, non uno strumento d’indagine. E chi cerca la vetrina non accetta critiche).

Torniamo ai “ragazzi” di DVorkin, eccone tre.

George Anders, giornalista con 30 anni di esperienza alle spalle, ritiene che il toolkit digitale disponibile oggi, gli strumenti del mestiere, sarebbero stati una manna 20 anni fa. Siti web specializzati su cui trovare materiale, Skype per fare interviste in ogni parte del mondo a poco prezzo, Youtube con la sua raccolta di interviste di personaggi importanti, file wav delle proprie interviste che, negli Stati Uniti, possono essere trascritti da società specializzate per pochi dollari.

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Qual è la forza dei giornali nel digitale – I conti del primo trimestre 2013 dei quotidiani Usa

C’è una frase che infonde ottimismo in un articolo piuttosto negativo sulla sfida tra giornali e digitale. Si parla di come sono andati i quotidiani americani nel primo trimestre del 2013. Non bene, naturalmente, perdono pubblicità anche nell’online. E il New York Times è in affanno. Ma ci sono potenzialità inesplorate.

Infatti i primi tre mesi del 2013 si sono chiusi per il quotidiano più famoso del mondo con una perdita del 4% nella raccolta pubblicitaria nel digitale. La raccolta complessiva del New York Times, carta stampata inclusa, va indietro dell’11%, a 191 milioni di dollari. Una doccia fredda per il giornale che più ha innovato il prodotto. E che aveva chiuso il 2012 con una crescita dell’1,9%, la prima inversione di tendenza dal 2006.

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L’Era di Google: dove e quanti soldi investe la pubblicità sui media digitali

Dove e quanto la pubblicità investe nei media digitali. Ovvero, l’Era di Google: presto il gigante di Mountain View supererà News Corp e diventerà il primo media per raccolta pubblicitaria nel mondo.

Sir Martin Sorrell, Ceo di una delle tre maggiori società internazionali di pubblicità, la WPP, ha spiegato mercoledì 24 aprile alla FT Digital Media Conference di Londra dove e quanto investe in pubblicità. Dove viene speso il budget di cui dispone.

Sorrell ha precisato che il digitale rappresenta il 34% degli investimenti della società da lui fondata. Pari a 72 miliardi di dollari.

«Da zero a più di un terzo degli investimenti in dieci anni: è l’Età di Google» ha commentato il Ceo di WPP.

Ma dove vanno i soldi? Vediamo i dati sugli investimenti di WPP nell’ultimo trimestre.

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L’uomo che vuole tagliare la pubblicità sulla carta stampata

Sir Martin Sorrell è una persona piuttosto influente: capo esecutivo (Ceo, in gergo) di WPP, una delle tre maggiori società di pubblicità e pubbliche relazioni a livello mondiale, quando parla gli altri ascoltano con attenzione. E magari si adeguano.

Il Guardian riporta alcune affermazioni del capo di WPP fatte mercoledì 24 aprile a FT Digital Media Conference di Londra.

Sorrell dice che gli investitori pubblicitari dovrebbero prendere seriamente in considerazione l’idea di tagliare gli investimenti nella carta stampata. E ha accusato Google, Facebook e Twitter di essere degli editori, delle media company, mascherate da società di tecnologia.

Considerazione di Sorrell n.1. C’è una grande discrepanza tra le somme investite in quotidiani e periodici e il tempo che la gente spende su questi media. Troppi investimenti in rapporto al tempo.

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L’arte dei social media: quando (e quanto) postare su Facebook e Twitter

A che ora conviene postare su Twitter per avere più retweet? Quando postare su Facebook per avere più click?

Guardate qui, questo articolo (link alla fine del post), per avere suggerimenti sull’uso dei social media, da Facebook a Twitter. E’ ripreso dal sito della The Association of Magazine Media (Mpa), l’associzione americana degli editori di periodici.

Ecco qualche esempio:

  • Momento migliore per postare su Twitter (per retweets): 5pm
  • Momento migliore per postare su Facebook (per condivisioni): 1pm
  • Numero ottimale di interventi su Twitter: 1-4 tweets all’ora
  • Numero ottimale di post su Facebook: 0.5 volte al giorno

Quando agire su Twitter

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http://www.magazine.org/industry-news/blogs/read/sticky-posts

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Due risposte sul futuro dei periodici

Come sarà il futuro della carta stampata nell’età digitale? Come il digitale è stato d’aiuto a una rivista di successo, molto conosciuta, diventata un modello della transizione alla nuova epoca dei periodici?

Riprendo un’intervista a Lewis D’Vorkin, Chief product officer di Forbes Media, la casa editrice della rivista Forbes. Non è una persona qualsiasi. D’Vorkin è alla guida dello sviluppo digitale di una rivista che è diventata un modello di reazione alla crisi della carta stampata e di espansione sulle nuove piattaforme. Non solo. Forbes è un esempio della nuova organizzazione del lavoro nelle redazioni, come spiegato nel celebre saggio «Breaking News» del professore Clayton M. Christensen della Harvard Business School (ampiamente ripreso da Futuro dei Periodici).

L’intervista, divisa in due domande, ciascuna delle quali contenuta in un video caricato su YouTube, è stata realizzata da un personaggio di cui si è parlato in questo blog, il professore Samir Husni, che si è dato il nome di Mr. Magazine, direttore del Magazine Innovation Center della School of Journalism all’Università del Mississipi.

Prima domanda: come immagina il futuro della carta stampata nell’era digitale?
(How do you see the future of print in a digital age? Listen to Mr. D’Vorkin’s answer to this question in this Mr. Magazine™ minute).

D’Vorkin spiega che c’è un futuro per le riviste che sapranno costruire un pubblico motivato, realmente interessato al contenuto, grazie a un giornale che sa essere focalizzato, sa darsi una precisa identità, sa cosa vogliono i suoi lettori. Ci saranno invece tempi difficili per le riviste troppo generaliste, ampie, confuse, poco bene indirizzate sui bisogni e le richieste dei potenziali lettori.

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Si misura dalle copie il successo di un giornale?

Le copie vendute in edicola sono ancora il metro del successo di un giornale? Lo è la somma delle copie cartacee e di quelle digitali? Oppure popolarità, vitalità e capacità di attrazione di una testata vengono portate alla luce da un nuovo mix di elementi, di rilevatori?

Le copie vendute, naturalmente, sono indice di successo perché equivalgono a soldi sonanti. E i pubblicitari guardano a questo indicatore (e al tipo di pubblico che segue una testata) per decidere dove investire.

Ma tutti sanno che oggi un giornale non esiste più soltanto in un’unica dimensione. Oltre alla carta esiste una sfaccettata realtà digitale, fatta di siti web, edizioni per tablet, discussioni su Facebook, scambi su Twitter.

Basta, tutto qui. Riporto questa frase trovata in un sito americano che commenta l’andamento di un’importante casa editrice di periodici, Time Inc., uno spunto per me nuovo di riflessione e valutazione.

«The circulation number is a metric from yesterday. More important is the integration between other dimensions of consumption: content sharing, time spent on the site, the interaction rate. What users do next is arguably more important than exposure to the content itself».

«Le diffusioni sono un metro del passato. Più importante è l’integrazione con altre dimensioni della fruizione del giornale: la condivisione dei contenuti, il tempo speso sul sito web, il livello di interazione. Quel che i lettori fanno dopo aver letto un articolo è forse più importante dell’incontro con il contenuto».

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I giornalisti digitali pagati a performance online

Giornalisti digitali pagati sulla base delle performance online.

Questo tema è nell’aria.

Su Digiday.com, media company newyorkese (contenuti, marketing, pubblicità, consulenze), vengono riportati esempi di prassi adottate da brand e siti web americani grandi e piccoli. Il più noto è Forbes. Nei casi citati la paga fissa del giornalista è solo una parte della retribuzione, cui si aggiungono bonus legati alle performance online.

Performance misurate in questo modo: quante volte l’articolo viene visto, quanti nuovi utenti si conquistano in una settimana, il numero di follower su Twitter…

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La pubblicità, vera incognita per il futuro dei giornali

Solo una piccola parte della pubblicità pagata su internet affluisce alle testate giornalistiche. Tutto il resto è bottino spartito tra i giganti della tecnologia: Google, Facebook, YouTube. Per questo il futuro di quotidiani e periodici è sotto scacco. È quanto emerge da The State of the News Media 2013, il rapporto del Project for Excellence in Journalism dell’autorevole Pew Research Center di Washinghton Dc.

Scrivo questo post pensando a un giornalista italiano decisamente conosciuto che un giorno, ai tempi delle mie prime esperienze in redazione, mi ha fatto questa domanda, un po’ retorica: sai dirmi qual è il limite più grande alla libertà dei giornalisti? Vista l’aria che tirava, veniva spontaneo rispondere che l’ostacolo maggiore è la mancanza di democrazia. «No, il limite più grande sono i soldi. Se non hai le risorse economiche per andare là dove avvengono i fatti, Palermo, Tunisi, New York, non sei un giornalista che possa fare bene il suo lavoro».

Ma da dove provengono le risorse per la maggior parte dei giornali? (Segue noitizia).

È il problema più grande per il futuro dei giornali, la vera incognita sulla strada del passaggio al digitale dei quotidiani e delle riviste di tutto il mondo. Oltre alle difficoltà di convincere i lettori a pagare per i contenuti giornalistici digitali, dopo anni di informazione gratuita nel web attraverso gli aggregatori di notizie come Google News, la strada viene sbarrata dalla difficoltà di raccogliere la pubblicità.

Il Pew Research Center spiega che le cinque maggiori compagnie presenti nel mondo digitale, nessuna delle quali è un editore, vale a dire Google, Yahoo, Facebook, Microsoft e AOL, incassano nel 2012 il 64% delle inserzioni pubblicitarie del web. La stessa percentuale del 2011. Gli editori hanno un ruolo minore, anzi, marginale. Uno scenario che verrà confermato nell’anno in corso.

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Lo studente che non vuole più sprecare tempo su Facebook

Frasi celebri.

«Per scorrere tutti i post della giornata con una certa velocità, ci mettevo circa un’ora, per assimilare informazioni totalmente inutili.

Insomma, tempo buttato. Questo tipo di attività è uno dei più diffusi tra gli utenti. Nel corso degli ultimi quattro anni, dal giorno della mia iscrizione, le mie abitudini quotidiane sono cambiate radicalmente e spesso ne ha risentito lo studio: nel primo pomeriggio, Facebook ha sostituito un bel film e la sera, prima di andare a dormire, invece di leggere un libro, davo un’occhiata alle ultime notizie della mia Home chattando con qualche amico.

Così, una domenica mattina, ho realizzato il mio Social Suicide…».

Lo dice un universitario, Prospero Pensa, che sabato 23 marzo ha pubblicato sul Corriere della Sera un articolo con le ragioni che lo hanno spinto ad abbandonare il più diffuso social network, Facebook.

Ci sono varie angolazioni dalle quali valutare questo edificante episodio. A me interessa quello dello spreco di tempo su internet. L’esperienza comune dice che qualsiasi ricerca, dalla più generale alla più puntuale, richiede una gran quantità di tempo. E la qualità dei risultati, del materiale trovato, è spesso insoddisfacente. Internet è un divoratore di tempo. Per non parlare dell’effetto dei social network.

Lego queste considerazioni al bisogno di trovare con facilità e in poco tempo contenuti di qualità Il giornalismo dovrebbe rispondere a questa richiesta. E la speranza è affidata alle applicazioni e alle versioni digitali dei giornali per i tablet, oltre alla “montagna” di informazioni cui si potrebbe attingere avendo accesso agli archivi di giornali e riviste. Ne ho parlato quando ho cercato di definire cos’è una rivista, un periodico e perché c’è una corsa ai contenuti giornalistici di qualità.
Ma quanto tempo si spende su Internet? A questa domanda risponde una ricerca pubblicata da Audiweb a inizio anno. Vi si legge che: «Nel 2012, gli utenti hanno speso online 1 ora e 23 minuti nel giorno medio, consultando 145 pagine».

Corriere della Sera: la fuga di uno studente da Facebook

Audiweb: diffusione di internet e tempo passato in rete
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Periodici vs digitale: la vita breve della pubblicità online

Ho trovato una breve riflessione sull’utilità dei periodici. Riguarda la pubblicità.

So che oggi il mondo cade a pezzi e la pubblicità scende in picchiata soprattutto nei print media. Ma, come altre volte ho avuto l’opportunità di leggere e riferire, quasi sfidando il senso comune, le riviste sono considerate molto efficaci come veicolo pubblicitario. Guardate qui per scoprire perché. Il boom dei media digitali ha messo in discussione questa verità. Anzi, il fioccare di portali e siti web, con la velocità di produzione e distribuzione, ha fatto dimenticare il valore stesso delle inserzioni sui magazine.

Ma nell’era dei social media inizia a farsi strada qualche ripensamento.

La pubblicità su Twitter perde rapidamente efficacia. Guardate la tabella qui sotto ripresa di Minonline.com. In pochi minuti gli utenti del social media dimenticano le inserzioni viste. l'”impressione” dura poche ore, a volte pochi minuti.

Certo, Facebook aziona meccanismi di moltiplicazione, vendono creati contenuti dall’effetto “virale”, condivisi migliaia di volte. Ma la durata dell’effetto rimane insoddisfacente. Bisogna programmare campagne su campagne, martellare il lettore.

Per questo c’è chi torna alla carica sbandierando le qualità della pubblicità sulle riviste di carta (o digitali). L’impatto sul lettore è più lento, la penetrazione avviene nell’arco di una settimana o di un mese. Ma dura di più. Lascia un’impressione più forte. Si accumula nel tempo. La stessa pagina viene guardata più volte e da più persone.

I periodici riportano a terra la comunicazione, la ràdicano al suolo, diventano strumento complementare allo sfrecciare di portali, siti, social media.

Il Punto: ragioni di utilità dei giornali.

La vita di un tweet

Minonline: Half a life

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Guide televisive del futuro, Axel Springer e l’operazione TunedIn

TunedIn Media, la società tedesca che ha lanciato la “social Tv” app Tunedin, è stata acquistata oggi dal gigante dell’editoria europea Axel Springer, editore di quotidiani, periodici e proprietario di siti di e-commerce in 36 paesi, a partire dalla Germania.

L’app per iPhone di Tunedin trasforma il guardare la televisione in un’esperienza sociale, perché mette insieme le indicazioni di una guida televisiva, le segnalazioni degli spettatori, gli show più visti, una community, la possibilità di postare su Facebook. Era stata lanciata nel dicembre del 2011 e in aprile era già presente in Germania, Austria, Svizzera. Ma la startup è nata in realtà a New York, a fine 2010, e poi si è trasferita a Berlino, come spiega l’articolo in link alla fine di questo post.

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Smartphone, pubblicità e i problemi di editori e Google

Serio e ampio articolo dell’Atlantic sulle incognite della pubblicità sugli smartphone: la nuova frontiera della pubblicità.

Un americano su due possiede uno smartphone, in Italia ne sono stati venduti oltre 20 milioni: insieme ai tablet, i cellulari intelligenti saranno il supporto su cui leggere e per cui ridisegnare contenuti informativi, news, giornali, periodici. Ma il passaggio digitale, come sappiamo, risulta problematico quando si parla di ricavi per le società, a partire dagli editori.

Perfino due giganti del digitale, Google e Facebook, temono impatti negativi e potenzialmente catastrofici per il loro business.

Il punto è questo: gli smartphone, insieme ai tablet, sono destinati a diventare il principale punto di accesso per informazione, news, servizi vari. Ma la raccolta di pubblicità sul mobile presenta problemi ancora irrisolti. Non piace alla gente perché è fastidiosa, invadente, poco leggibile. Le dimensioni dello schermo di un cellulare intelligente sono davvero ridotte e inserzioni e spot, per farsi notare, devono essere aggressivi. Ma proprio per questo la gente non li ama. E le aziende non sono disposte a pagare molto per la pubblicità via mobile. A questo si aggiunge la difficoltà di misurare il rendimento e il livello di interazione dell’utente, rilevazioni più complicate rispetto alla fruizione sul computer di casa.

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Il boom dei video nel digitale

Il boom dei video nei siti web dei giornali va di pari passo con l’esplosione dei clip pubblicitari. Sono due fenomeni trainati dal diffondersi di apparecchi che permettono di vedere filmati digitali: smartphone, tablet, smart tv (quelle collegate a Internet). Negli Stati Uniti la crescita dei video è superiore a qualsiasi altra forma pubblicitaria online.

Mi ha colpito la velocità con cui il principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera, ha imbottito di video il suo sito. Quando non riesco a vedere il telegiornale, so che posso avere una sintesi delle notizie della giornata attraverso le news filmate del giornale di Via Solferino.

Si tratta di un’offerta di contenuti giornalistici che viene creata per soddisfare una domanda di informazione legata al diffondersi dei device mobili, ovvero smartphone e tablet.

Ma all’offerta di informazione corrisponde un’analoga offerta di video pubblicitari. I due prodotti vanno di pari passo. Proprio come a ogni pagina di contenuto editoriale corrisponde una pagina di pubblicità sui periodici.

Il sito statunitense eMarketer calcola che i video siano la forma pubblicitaria online a più forte crescita: l’incremento nel 2012 è stato del 46%. Complessivamente si sono investiti per i filmati pubblicitari 2,93 miliardi di dollari nel 2012, pari al 10% di tutta la pubblicità online. Si è però lontani dalla pubblicità sui canali televisivi (per la quale si sono spesi 68 miliardi di dollari nel 2011).

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I periodici e il sito di Men’s Health

Segnalo l’intervista su Folio Mag al direttore di Men’s Health (Usa), Bill Phillips, fino a novembre era alla guida del sito web del giornale.

L’argomento: come Phillips sia riuscito a creare un sito che stia in piedi da solo, senza esaurire la sua funzione in un ruolo ancillare rispetto al giornale. La storia a mio parere ha un interesse per tutti coloro che lavorano nei periodici, è paradigmatica.

Più il sito è autonomo, dice il direttore, maggiori sono le possibilità di crescita e di successo, questo è il succo dell’esperienza di Phillips, una prospettiva che rovescia l’impostazione solitamente data ai siti nel mondo dei magazine. Un punto di vista tra tanti, certo, ma da tenere in conto.

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Video: Hearst e il futuro dei periodici

I periodici sono stati i primi social media e s’integrano bene con Facebook e Twitter. Parola di David Carey, presidente di Hearst Magazines. Che in un’intervista a Bloomber spiega come i periodici possano rafforzare il legame con i lettori grazie ai tablet, ai siti, ai contenuti di alta qualità.

Riprendo un’intervista a David Carey, ex Condé Nast ed ex publisher del New Yorker, di cui questo blog si è spesso occupato. È stata realizzata 10 mesi fa ma conserva una sua attualità perché la situazione in cui si trovavano allora i magazine americani coincide con la situazione della stampa in Italia adesso. Vediamo giornali storici lottare per la sopravvivenza, dice la giornalista che intervista Carey, come potranno i periodici adattarsi al futuro?

Nelle risposte di Carey noto questi punti.

1) Il tablet ha dato ai lettori un’idea di dove andranno i periodici nel futuro. Mi par di capire che lo stesso effetto i tablet lo abbiano sui giornalisti: magari le copie digitali non compenseranno nell’immediato le perdite in edicola ma sappiamo qual è la strada da percorrere per ritrovare un senso come prodotto editoriale.

2) Nell’era di Facebook i periodici devono riscoprire una loro caratteristica originaria: essere stati i primi social media. Con argomenti che vengono letti e condivisi, discussi con gli amici, pagine strappate e fatte girare, raccolte, conservate. Social media e magazine stanno bene insieme.

3) La pubblicità non vuole abbandonare la carta. Ma chiede di poter fare campagne promozionali su tutti i mezzi, carta e digitale insieme.

4) Con i tanti contenuti gratuiti disponibili nella Rete i periodici, spiega Carey, hanno il coraggio di proporre applicazioni a pagamento al lettore. Questo è possibile perché le applicazioni dei magazine sono prodotti premium, di alta qualità, arricchiti con video, animazioni, grafica (leggete anche questo post di Futuro). Ma l’accesso ai siti resterà gratuito.

5) Tra cinque, dieci anni ci saranno ancora i giornali di carta? Guardate il video.

Il Punto: cosa pensano del futuro dei magazine i protagonisti dell’editoria periodica.

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Wired (Usa) sposa la filosofia del digital first

Wired Usa, mensile su tecnologia e internet, sta sviluppando una strategia editoriale che mette al primo posto il digitale. Il tentativo, attraverso le nuove piattaforme e la carta, è di dare al lettore contenuti diversificati e sempre aggiornati.

Questo di Ad Week è un pezzo che mostra come possono cambiare le strategie di pubblicazione di un pezzo quando un editore possiede piattaforme e tecnologie diverse per diffondere i contenuti giornalistici. Si capisce anche che diventa rilevante scegliere dove fare uscire prima un articolo. Web, edizione per tablet, facebook o giornale di carta? È come suonare sulla tastiera di un pianoforte.

In passato gli editori di periodici hanno pubblicato su carta. Poi, magari dopo aver ritirato dalle edicole i giornali, facevano uscire il pezzo sul sito. Fruizione gratuita. Ma da qualche tempo c’è la possibilità di dare al lettore una copia digitale del giornale, che è la replica della carta. Ma si possono fare scelte diverse, come ha deciso Wired, mensile di tecnologia e stile di vita digitale di Condé Nast, nella edizione americana.

Nel caso preso a esempio da Ad Week, Wired vuole raccontare la presentazione di un nuovo strumento messo a punto da Facebook per i suoi social utenti, un nuovo elemento per la ricerca degli amici chiamato Graph Search, su cui è stato sollevato il velo in un evento promozionale.

Anziché attendere un mese per dare ai propri lettori un articolo sul giornale in edicola, Wired ha fatto uscire il pezzo sul sito del giornale non appena si è concluso l’evento organizzato da Facebook. Una versione interamente concepita per il digitale dell’articolo sarà inoltre presente nel numero di febbraio della edizione per tablet del giornale, che uscirà martedì 22 Febbraio, inaugurando un nuovo calendario di pubblicazione che vede Wired per tablet rilasciato con cinque giorni di anticipo rispetto all’edicola. L’articolo non sarà invece contenuto nel giornale di carta.

Questa nuova strategia editoriale – rilasciare articoli legati all’attualità sulle piattaforme digitali, piuttosto che dare la precedenza alla carta – è portata avanti dal nuovo direttore di Wired, Scott Dadich. Il quale non è preoccupato dal pensiero di non fare uscire certi articoli nel giornale per l’edicola.

«We’re really focused on delivering more content wherever we’re able to, and when there is a physical limitation (perché il giornale è appena stato stampato) we think digital presents a value proposition for our readers».

«Siamo interessati a fornire più contenuti ovunque sia possibile e se c’è una limitazione fisica, perché siamo in ritardo con la carta, pensiamo che il digitale sia una creazione di valore per il lettore».

Non preoccupa neppure che l’edizione per tablet esca con cinque giorni di anticipo e danneggi la carta: semplicemente si dà di più ai lettori che, attraverso la sottoscrizione di un abbonamento digitale, si dimostrano più impegnati e fedeli al giornale».

  «This is really about giving more value to the readers who commit to us in the form of a subscription».

Il direttore di Wired vuole insistere in questa direzione, conservare la filosofia del digital-first, anche quando si tratta di pubblicare articoli “stand-alone”, acquistabili separatamente, come se fossero degli e-book; o quando si aggiorna una storia nell’edizione per tablet dopo che è stata rilasciata (avvisando i lettori con l’invio di un messaggio).

Il punto: come i periodici possono continuare a fare approfondimento senza essere “bruciati” dalla velocità dell’informazione digitale.

adweek: Wired sposa la linea digital first

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I periodici e la filosofia della toilette

La gente passa sempre più tempo su internet. E quando è connessa, la gente va sui social media.

Lo dice The Social Media Report 2012 di Nielsen (il Rapporto sui social media 2012: lo potete leggere in inglese usando il link riportato in fondo a questo post, è tutto grafica), pubblicato poche ore fa.

La gente, leggo, passa più tempo online: il 21% per cento in più rispetto al 2011. E questa è una brutta notizia per quei giornali di carta che non ne vogliono sapere di avere una presenza significativa nel mondo digitale con: siti e versioni per tablet e smartphone.

Quando è connessa la gente va sui social network: Facebook (su tutti), Twitter, Pinterest, Worldpress… E questa è la seconda brutta notizia per i periodici. Perché i social network sono nuovi concorrenti della carta stampata (chi l’avrebbe mai previsto: fino a 10 anni fa i social media non esistevano e i concorrenti dei periodici erano tv, radio e quotidiani). Sono concorrenti perché: 1) tolgono tempo alla gente per la lettura dei magazine; 2) sottraggono pubblicità ai giornali di carta: gli inserzionisti vanno là dove si trova la gente e nessun obbligo di legge può imporre di fare inserzioni sui giornali.

Ma per connettersi al web la gente usa sempre meno il pc (-4%: guardate i dati del rapporto Nielsen) e sempre più i tablet e gli smartphone (il mobile, cioè i due insieme, fa +82%). E questa è una buona notizia, mio caro amico. Almeno così pensa l’autore di questo blog, che poco sa ma molto ascolta e legge.

Una volta si diceva che la gente non comprava più i giornali perché trovava le notizie gratis su internet. Ma sai che noia leggere articoli di giornale al desktop, al computer di lavoro o di casa, seduti alla scrivania, scomodi, con davanti uno schermo grande come un televisore? Lo si può fare per le news, non per aticoli di arredamento, moda, gossip, con le inchieste. E poi io sto seduto alla scrivania tutto il giorno e quando leggo il giornale che mi piace voglio stendermi su una chaise longue. I giornali si era abituati a consumarli con agio e relax. E i tablet lo consentono. Si legge a letto, si legge nel salotto (nel living, nel living, pardon). I nuovi device riproducono le condizioni di lettura dei periodici, restituiscono la stessa esperienza, e un editore può pensare di offrire copie digitali delle proprie riviste da scaricare (a pagamento e con la pubblicità) con tablet e smartphone. Promettente.

La controprova? E’ nel Rapporto di Nielsen. Un terzo dei giovani tra i 18 e i 24 anni si connette al web e usa i social media quando si accomoda in bagno. Proprio come noi facevamo con i nostri cari, vecchi giornali, a riconoscimento del massimo della intimità.

M’interessa perché: 1) spiega che i periodici se la devono vedere con nuovi competitor, assai disruptive; 2) i tablet possono essere un grande alleato dei periodici, la porta del futuro.

Nielsen: Report social media 2012

Rapporto Nielsen Soclai Media 2012

Rapporto Nielsen Soclai Media 2012

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Intermezzo/ L’era delle immagini digitali

Il primo web browser grafico di successo (Netscape) è stato presentato nel 1994, meno di 15 anni dopo le foto ospitate su Flickr erano 6 miliardi, cioè 450 volte più di quelle conservate nella Biblioteca del Congresso, a Washington.

Nel 2009 più di 2,5 miliardi di apparecchi elettronici con una fotocamera hanno scattato il 10 per cento delle foto mai fatte.

Nel dicembre del 2011 sono state caricate 60 immagini al secondo su Instagram. Per l’inizio del 2012 gli utenti di Facebook caricavano sul sito più di 300 milioni di foto al giorno.

Siamo entrati in un’era in cui la comunicazione visuale sta soppiantando la parola scritta. E’ l’alba della imagesphere.

 

 

 

La Fonte: «iMedia Communications, Inc. is a trade publisher and event producer serving interactive media and marketing industries. The company was founded in September of 2001 and is a subsidiary of dmg world media».

media connection: le immagini nel web

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Da Facebook a Kobo

La pubblicità su Internet, gli italiani connessi, il successo di facebook, il Kobo (ereader) di Mondadori. C’è un po’ di tutto qui. Buona lettura.

Censis: il digitale in Italia

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Bloomberg: il nuovo digitale di Time Inc.

Laura Lang, Ceo di Time Inc. (ne ho già parlato in un post del 22 agosto di Futuro dei Periodici), è stata chiamata alla guida del gigante dei periodici americani perché ha un’esperienza di pubblicià nel web. Non di editoria. Si è messa al lavoro per ridisegnare le strategie del gruppo con attenzione soprattutto verso il passaggio al digitale e le esigenze degli inserzionisti. In questo articolo di Bloomberg si spiega quali passi sta per intraprendere. E’ un articolo chiave perché contiene molti nodi su cui stanno ragionando gli editori. E perché si riporta anche il pensiero di alcuni grandi inserzionisti relativi ai magazine, al digitale e ai lettori dei magazine.

Partiamo dalla fotografia dei magazine di Time Inc. quest’anno: il fatturato della raccolta pubblicitaria è sceso del 6 per cento, quello degli abbonamenti (rilevantissimi nel mercato Usa) del 7 per cento (guardate il post del 20 agosto di Futuro dei Periodici). Ma il gruppo editoriale conta comunque su 21 testate e una audience potenziale, tra carta e digitale, di 127 milioni di lettori. Su questo Laura Lang vuole far leva e ritrovare una presa sulla pubblicità.

“Advertisers I’ve met with have all said the same thing: ‘I love your print product, but find a way to let me do it with other channels.’”, dice la Ceo di Time Inc. «Gli inserzionisti mi dicono sempre la stessa cosa, che amano la carta ma hanno bisogno di operare anche su altri canali».

Da qui un cambio di strategia. Gli inserzionisti potranno sviuluppare le loro campagne su tutti i brand di Time e su tutti i media, carta e digitale insieme. Finora, invece, ciascun brand si muoveva da solo, spesso combattendo guerre pubblicitarie con altre testate del gruppo editoriale.

Punto secondo, delicato per noi giornalisti: gli inserzionisti, le aziende potranno comprare pagine dei giornali, articoli già usciti o in uscita intendo dire, allo scopo di ripubblicarle sulle proprie pagine Facebook e lanciarle su Twitter. Saranno articoli su commissione o almeno ispirati dalla pubblicità? Ovviamente Laura Lang dice di no. «Articles also won’t be produced at the behest of advertisers, Lang said. Given the depth of Time Inc.’s editorial well, sales executives should be able to find articles or features relevant to any campaign, she said».

I cambiamenti di Time Inc. rimandano subito alle trasformazioni avviate in queste settimane da Hearst Magazines. Qui si sta lavorando per ampliare il numero di abbonamenti alle edizioni dei giornali per tablet, arrivate già a 700,000. E la compagnia ha lanciato il sito di ecommerce ShopBazaar, un website che rinvia direttamente alle pagine di Harper’s Bazar. Quelli di Hearst (riporta l’articolo di Bloomberg) stanno rivisitando alcuni dei dogmi che per molto tempo hanno regolato i rapporti tra contenuti giornalistici e vendite di prodotti. Soprattutto nella chiave dello sviluppo digitale. Da questo punto di vista, sia a Time Inc. che ad Hearst, c’è la consapevolezza che il proprio database di lettori e clienti ha un grande valore commerciale ed è una assicurazione sul proprio futuro. Solo Time Inc. può offrire agli inserzionisti i dati su 65 milioni di abbonati, online e offline, sui quali i pubblicitari possono impostare campagne molto mirate.

Non a caso nell’articolo di Bloomberg si riporta una frase di Dionne Colvin, national media marketing manager di Toyota America: «Time Inc. ha una audience già in qualche modo selezionata, un magnifico, ricco database di potenziali clienti».
E tra i fan di Laura Lang c’è Johnson & Johnson, la multinazionale dei prodotti per l’igiene e la casa.

Bloomberg: il nuovo digitale di Time Inc.

M’interessa perché: 1) vede gli aspetti positivi delle riviste periodiche, ad esempio l’ampio lettorato, ghiotta preda degli inserzionisti; 2) riflette su come devono cambiare i confini tra informazione e pubblicità; 3) riporta il punto di vista di grandi inserzionisti, per niente negativi verso il futuro dei periodici.

Il punto: l’evoluzione della strategia sul digitale e una reale possibilità di sviluppo o almeno tenuta dei periodici.

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Men’s Health e l’offerta su Facebook

Rodale si allarga nel digitale su Facebook e da martedì utilizza il social network per offrire ai lettori delle sue testate di punta, Men’s Health e Women’s Health, contenuti del giornale, contenuti extra, programmi d’allenamento, diete, proposte d’esercizi per il week end, video, insomma una serie di proposte GIORNALISTICHE senza che il lettore debba lasciare Facebook, un arricchimento dell’offerta cartacea. Le app delle due riviste vanno sotto il nome di Get More.

Men’s Health e la proposta di Rodale per il digitale

 

M’interessa perché: 1) prima o poi sul digitale bisogna mettere contenuti, tutto il resto non basta.

 

Il punto: come crescere nel digitale.

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Sviluppo digitale? I periodici americani sono lenti

Ok, ok: il futuro dei periodici (settimanali, mensili) è legato allo sviluppo sulle piattaforme digitali. Questo ammettono ormai tutti gli editori. Ma quale sia il loro reale investimento e l’efficacia delle mosse su tablet, twitter, facebook, è ancora da verificare. Si dice che non c’è un chiaro modello di business digitale per i periodici. Ma già con quello che offre la tecnologia e con i nuovi comportamenti dei lettori si possono muovere passi importanti. A giudicare da questa ricerca, però, gli editori non hanno ancora capito la logica della comunicazione nel digitale e non si stanno impegnando a fondo. Leggete questo articolo pubblicato da Minonline che parla del lavoro di L2, Think Tank newyorkese che misura la “competenza” digitale di 80 brand mondiali dei periodici. Il secondo link permette di accedere alla classifica sulla competenza digitale di L2. Al primo posto Wired (sorpresa!), Time è al sesto, Elle al settimo posto in classifica.

 

L2: I magazine americani indietro nell’evoluzione digitale.

La classifica sulla competenza digitale dei principali magazine mondiali.

 

M’interessa perché: 1) al di là delle dichiarazioni di principio, gli editori investono poco e male sul digitale; 2) c’è una classifica divertente.

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