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I 2 Tempi Della Notizia: «Ora» E «Più Tardi»

La notizia viene elaborata secondo la scansione temporale di: ORA e PIÙ TARDI. Due momenti a cui viene associato un diverso strumento di lettura: smartphone/sito web versus carta/applicazione

 

Una cadenza in due tempi plasma oggi l’informazione.

Ne parla ancora una volta quella formidabile fonte di riflessione che è il blog di Mario Garcia, designer e professore di giornalismo.

Garcia in una magistrale lezione online, visibile anche in video (Hearst digital media lecture), spiega che l’informazione viene ritmata su due tempi.

C’è il materiale grezzo, lo strillo, la breaking news. Che arriva attraverso smartphone, o con la ricerca su Google.

E c’è il momento della cottura prolungata, del racconto ben realizzato, dell’approfondimento. Per cui la carta rimane, forse, lo strumento ancora oggi più adatto.

Il punto è che ogni pubblicazione deve avere molto chiara – raccomanda Garcia – la visione di come deve essere elaborato e cadenzato il flusso temporale dell’informazione per il proprio pubblico.

Seguono gli esempi di Circa, Breaking News, Yahoo News Digest, New York Times Now, Guardian.

Siamo lontani dall’angosciante idea di doversi precipitare verso una non meglio definita transizione al digitale. Ma è chiaro che non c’è spazio per chi dovesse ignorare il nuovo ciclo della notizia.

Non è tempo per strumenti solisti. Se ne era già parlato a proposito di un concetto musicale passato al giornalismo: quello di media quartet.

Futuro dei Periodici

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Perché I Post Più Visti Sono Diventati Virali

Non solo foto di gatti. Storie giornalistiche sono tra i post più visti online. Perché la chiave per diventare virali non è la leggerezza

Ne parla un’esperta di scienze comportamentali, la giovane responsabile del team di contenuti virali di PolicyMic, piattaforma di news dal mondo per la generazione dei millennial.

Liz Plank riporta la lista delle 15 notizie più lette su Facebook in un certo lunedì del 2013. E osserva che solo uno dei post diventati virali ha contenuto leggero, gli animali, secondo il canone introdotto da BuzzFeed. Gli altri 14 post sono di Bbc, The Guardian, The New York Times.

Guardiamo meglio.

Di cosa parlano? Di proteste popolari (Brasile), persone sfruttate in lotta per i loro diritti, insolite prese di posizione impegnate da parte di chi non te l’aspetti (Miss Utah).

Perché sono notizie molto lette, molto commentate, molto condivise?

I gatti inteneriscono e fanno sentire felici. Ma anche gli altri 14 post mettono al centro le emozioni. Le storie. Un punto di vista molto vicino ai fatti. C’è identificazione. E allora l’argomento “serio” diventa un veicolo ancor più potente delle foto dei gatti.

Liz Plank, in un altro articolo, elenca le caratteristiche del post virale.

E aggiunge questa interessante osservazione:

«Recognize the difference between optimizing for search and optimizing for social»

«Tieni conto della differenza tra ottimizzazione per Internet e ottimizzazione sui social media»

Questo post sulle proteste di piazza Taksim: “Turkey protests: Has the Arab Spring finally reached Turkey?”,  ha un titolo pensato per le ricerche su Google. Ci sono tutte le parole chiave della notizia. Eppure il post ha raccolto pochi tweet e poche condivisioni su Facebook.

Invece un post ottimizzato per i social media ha questo titolo: “Taksim Square protest: 11 images from Turkey that will give you the warm fuzzies.” La combinazione di emozioni coinvolgenti, immagini e fatti importanti si dimostra vincente. Infatti questo post ha raccolto 48 mila condivisioni su Facebook e 1.400 su Twitter.

 

 

Bonus: le lezioni apprese nel lancio della sua startup giornalistica dal cofondatore e Ceo di PolicyMic, Christopher Altchek (oltre 4 milioni 500 mila utenti unici in 2 anni di attività su temi come l’invasione russa della Crimea e l’opposizione dei Repubblicani alle nuove politiche sull’immigrazione negli Usa).

Futuro dei Periodici

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L’Ottimismo nello “Stato Dei News Media 2014”

Leggiamo lo Stato dei News Media 2014. Un rapporto sulla salute di quotidiani, riviste, tv, media digitali negli Stati Uniti. Uno specchio di tendenze presenti anche in Italia. E c’è un briciolo di ottimismo

L’ottimismo è nei primi autorevoli commenti su The State of the News Media 2014. Si osserva, per esempio, che nel mondo dei media stanno finalmente filtrando investimenti, energie e attenzione di chi si è affermato e arricchito nel digitale. Una carica per l’industria della carta stampata, ancora in affanno nell’anno passato. E così i giornali riducono ancora del 6% le redazioni ma 500 news outlet digitali hanno assunto 5000 giornalisti e curatori di contenuti.

The State of The News Media 2014 del Pew Research Center (fondazione che sviluppa indagini statistiche sulla vita e la cultura degli statunitensi, indagini riprese sempre più spesso dalla stampa italiana) fa il punto sulle condizioni di salute di tv, quotidiani, riviste, nuovi media. E fornisce una tale quantità di informazioni, dati, tabelle, riflessioni da richiedere giorni per esaurire l’esame.

Provo ad avviare per voi il processo di assimilazione ed estrapolo alcuni highlight, validi non solo per i periodici.

1) Confusione nei cieli

Il rapporto si apre infatti con una affermazione che dà forma a qualcosa che tutti noi avvertiamo: è sempre più difficile fare una distinzione tra le varie forme di giornalismo. Appare ormai artificioso separare quotidiani, periodici, televisione, radio e media digitali. Il 2013, di fatto, ha accelerato il fenomeno della convergenza delle varie piattaforme.

2) Le giuste proporzioni

Cos’è il giornalismo a livello industriale? Il mondo dell’informazione ha un giro d’affari di circa 63 miliardi di dollari. L’industria dei video giochi vale 93 miliardi di dollari; Google 58 miliardi; Starbucks 15 miliardi.

3) Follow the money

Nei media statunitensi il 69% dei ricavi complessivi (93 miliardi di dollari) è rappresentato dalla pubblicità. Il 24% da copie vendute e abbonamenti (pensiamo alla tv). E poi…

Il 7% va sotto la voce “altro”. E’ interessante capire di cosa si tratta, perché è sempre più importante per le case editrici (vista la contrazione di pubblicità e copie). Si tratta di eventi, servizi di marketing offerti a terzi, consulenza nel web, scuole con il brand del giornale…

L’1% sono i contributi di magnati, filantropi. Come Jeff Bezos, papà di Amazon, che compra per 250 milioni di dollari il Washington Post.

4) La parte del leone

La fanno i quotidiani. Che raccolgono 38,6 miliardi di dollari. Le tv locali ne prendono 8,9 miliardi. I settimanali 3,6 miliardi. I nuovi editori digitali 0,5 miliardi di dollari.

5) Mantenere il futuro

La domanda da un milione di dollari è da anni: c’è un modello economico per i giornali o falliranno tutti? Si può ancora vivere facendo informazione?

Si parte dalla constatazione che solo il 25% dei fatturati dei news media proviene da copie vendute e abbonamenti. E nuovi sistemi di pagamento, come i paywall nei quotidiani, stanno dando finalmente frutti. Ma il sorriso muore sulle labbra quando si pensa che in 7 anni la raccolta di pubblicità, principale fonte di sostentamento, è crollata del 50%. E nell’ultimo anno è rimasta stabile in tv, è ulteriormente calata sui quotidiani, invece nel web non cresce in modo sufficientemente rapido da compensare le perdite sugli altri media.

Il futuro, si conclude, dovrà poggiare su modelli di business differenti testata per testata, editore per editore, media per media.

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Cosa Insegna Ai Giornali La Rivoluzione Digitale Nel Cinema

Un documentario racconta l’arrivo e l’affermarsi del digitale nel cinema e nella fotografia. E’ una storia che stimola confronti con quel che sta avvenendo nel mondo dei giornali. Rivelando un ritardo culturale

Leggo delle polemiche nate da un quesito nel corso di deontologia dell’Ordine dei giornalisti italiani, quesito che accredita l’idea secondo cui la cultura di Internet indebolirebbe la capacità di approfondimento del giornalismo (il quesito è stato eliminato dopo una segnalazione).

Carta contro digitale: la disputa mi ha fatto tornare in mente le discussioni che hanno accompagnato l’arrivo delle tecnologie digitali nel cinema.

Anche in quel caso era stato posto un problema di qualità, come ricorda un articolo di Talking New Media. Lo sappiamo, la fotografia su pellicola era, e rimane, superiore.

Il passaggio più interessante dell’articolo riguarda una riflessione su cosa ha reso possibile la transizione al digitale nell’industria dei film.

La storia è raccontata nel documentario Side by side di Christopher Kenneally, prodotto da Keanu Reeves (più sotto vedete il trailer). Ci sono interviste a Martin Scorsese, James Cameron, David Lynch.

L’affermarsi delle nuove tecnologie, guardate all’inizio con sospetto, è stato reso possibile da un’alleanza tra registi, produttori, distributori. Tutti insieme hanno spinto per il digitale. A velocità travolgente.

Un’alleanza che non si vede nell’editoria dei giornali.

Oggi nel mondo della stampa il digitale viene visto come un puntello per la carta stampata, roccaforte da difendere a ogni costo.

La creatività viene imbrigliata, sacrificata, ritardata.

Nel cinema, e nella fotografia, si è riconosciuto che la pellicola aveva già dato tutto quel che poteva. Era arrivato il momento del digitale.

Nel giornalismo ci si attende che quotidiani e periodici di carta possano ancora riservare sorprese?

Chi sparge la polvere dorata di ispirazione, creatività, voglia di sperimentare?

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7 Parole Chiave Sui Giornali da Portare nel 2014

7 frasi e parole sui media da portare nel 2014. Descrivono i cambiamenti che stanno rivoluzionando i giornali. Parlano del futuro dei periodici. Descrivono il nuovo modo di lavorare nelle redazioni, di rapportarsi ai lettori, di guadagnare con i brand, di creare e innovare. Con un pizzico di ottimismo

«La carta non è il giornale» Il giornale sopravvive e cresce anche se scompare l’edizione di carta.

«Time non è una rivista» Lo dice il Boss di Time Inc. Perché un giornale vive di copie vendute e pubblicità; ma, sempre di più, di altre voci, come gli eventi, le sponsorizzazioni, le scuole di business e di moda con lo stesso marchio, la pubblicità nativa…

«La community è il contenuto» Vale per Time e per l’Economist. A maggior ragione, la massima si applica alle riviste popolari. Lo scambio con i lettori ha la stessa importanza del normale lavoro giornalistico.

«Wired è digital first» Gennaio 2013, Wired annuncia negli Usa una rivoluzione nel modo di lavorare della redazione. A fine 2013 anche l’edizione italiana di Condé Nast adotta la filosofia del «digital first» con il direttore Massimo Russo. L’esempio di una rivista pionieristica, molto guardata dagli addetti ai lavori, che si presta per contenuto.

«Slow Media» La società svedese Bonnier utilizza in un rapporto sui cambiamenti dei media un’espressione che sta prendendo piede. È bella, anche se modaiola: slow media descrive il piacere della lettura di quotidiani e periodici. Resterà un valore nonostante l’avanzata dei fast food dell’informazione.

«Il Media Quartet» Il quartetto dei media: carta, sito, smartphone, tablet. Perché è il momento di dire basta alla retorica del passaggio al digitale. Il designer ed esperto di media americano Mario Garcia spiega che ogni giornale ha quattro dimensioni, quattro facce che dovranno convivere a lungo. La carta fa parte dello sporco quartetto.

«Newsweek è un prodotto da boutique» Mettiamola così: il giornale di carta diventa in molti casi qualcosa per cui il lettore deve essere disposto a spendere. Ma c’è una ragione per farlo volentieri: è un prodotto di lusso.

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Video della Rivista Digitale dell’Anno – Digital Magazine Awards 2013

Il magazine digitale dell’anno è un femminile di lifestyle per iPad. Ma vengono premiati anche i siti di testate storiche

Quali periodici sono un esempio di sviluppo? Quali possono essere studiati per le idee innovative? Uno spunto arriva dai Digital Magazine Awards assegnati a Londra.

Obbligatorio segnalare i vincitori nelle 2 categorie principali:

• Digital Magazine of
the Year: Katachi

• Magazine Website of the Year: Esquire.co.uk

Questa è la rivista di moda, lifestyle, cultura, pensata solo per iPad: Katachi.

Tra le categorie, segnalo:

• Fashion Magazine of the Year: Katachi

• Men’s Lifestyle Magazine of the Year: British GQ

• Women’s Lifestyle Magazine of the Year: Katachi

• Sports, Health & Fitness Magazine of the Year: Men’s Health (US)

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Quella Cosa Chiamata Long-Form Journalism

Long-form journalism, giornalismo multimediale, nuovi strumenti per raccontare: qualche notizia, un pizzico di polemica, 3 articoli

C’è una espressione che gode di un certo successo nel giornalismo digitale: long-form journalism (qui qualche esempio di pregio).

Indica gli articoli che hanno una certa estensione, come fa capire la formula inglese, e un andamento narrativo che a volte porta al reportage altre all’approfondimento e scavo nei fatti.

In molti suscita ilarità o sarcasmo. Il long-form journalism non sarebbe, ai loro occhi, che una etichetta di moda per indicare… un articolo.

Qualcuno ci vede riflessa la pochezza di tanta informazione ripetitiva, moltiplicata, copiata, cui ci si è abituati con il digitale.

Altri ancora ci trovano un nuovo modo di raccontare che permette ai giornalisti di utilizzare per la prima volta tutti gli strumenti espressivi a disposizione grazie alla tecnologia: scrittura, fotografia, video, audio, grafica.

Salvo poi osservare che tale profusione di mezzi porta, anche nei casi più celebrati, a prodotti ridondanti, inutilmente ricchi, sostanzialmente noiosi (come Snow Fall?).

Nell’attesa di chiarirmi le idee, segnalo questi pezzi sull’argomento (in inglese):

Uno sguardo disincantato sul fenomeno uscito ieri su The Atlantic.

Un pezzo di Mathew Ingram per Gigaom.

Il sito di long-form storytelling: Beautiful Stories.

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L’Editore Che Fa Innovazione di Prodotto. In Piena Crisi

Stati Uniti: il gruppo Bauer Media ha lanciato 3 giornali in 3 mesi. Tra cui il settimanale Closer. Un passo compiuto nel pieno della crisi: il momento giusto per fare innovazione di prodotto

Giorni fa una persona che si occupa di brevetti mi diceva che in questo periodo sta lavorando come mai prima. Proprio quando c’è la crisi, le aziende fanno la corsa per cambiare i loro prodotti e innovare. Puoi conservare la tua fetta di mercato solo se dai una ragione in più di acquisto (sarebbe sbagliato abbassare i prezzi). E nei periodici?
Ne parla il professore di giornalismo, Samir Husni, noto come Mr Magazine. Ha intervistato i boss di una grande casa editrice: Bauer Media, gruppo tedesco, presente in modo massiccio negli Stati Uniti. Quest’anno Bauer ha lanciato tre giornali negli ultimi tre mesi, tra cui il settimanale di gossip Closer (di cui avrete sentito parlare per lo scandalo delle foto di Kate Middleton nuda, un anno fa).
 
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«Newsweek È un Prodotto da Boutique»

Avete letto bene. Per il direttore che riporta in edicola il celebre newsmagazine, «Newsweek è un prodotto da boutique».

Lo ricorda il sito dell’Atlantic. Jim Impoco, direttore messo da IBT Media alla guida del brand uscito un anno fa dalle edicole, afferma:

«We see it as a premium product a boutique product».

Suggestivo. Il giornale di carta è un prodotto premium: per un pubblico esigente, disposto a pagare, attento al valore del giornalismo.

Certo, questo non significa che la crisi non c’è.

I giornali hanno perso quell’equilibrio economico che li ha sorretti e resi grandi per tanto tempo. Bisogna dimostrare di aver ritrovato una stabilità.

Ma la vicenda di Newsweek dice, a mio parere, un’altra cosa, positiva: i brand storici del giornalismo sono più duri a morire di quanto si pensasse. C’è del valore, in quelle riviste. In quei nomi.

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Quanto Crescono i Giornali nel Digitale (E il Ritorno di Newsweek)

Il passaggio dei periodici al digitale, lo sviluppo dei siti, l’espansione sui social, il diffondersi dell’iPad, la crescita tumultuosa delle copie per tablet, la comparsa di edicole virtuali con scaffali sempre più colmi di giornali. Ma un importante rapporto sul futuro dei magazine dice che tra 5 anni il digitale peserà solo per il 12% sui fatturati. Tutto il resto è carta

NEWSWEEK Ci pensavo leggendo la notizia del ritorno nelle edicole di Newsweek: una inversione a U, dopo la decisione, presa un anno fa, di andare avanti solo nel digitale. Tutti i giornalisti lo ricordano, è stata una notizia da tg delle 20. Ma la nuova proprietà del newsmagazine ha idee diverse dall’ex direttore Tina Brown. Una vicenda esemplare sull’incertezza e imprevedibilità con cui siamo costretti a convivere.

EDICOLA VIRTUALE Carta o nuove realtà. Al riguardo un’edicola virtuale britannica, MagVault, ha realizzaro una bella infografica sul boom delle edizioni digitali dei periodici.

Numeri impressionanti sulla crescita. I maggiori settimanali e mensili sono presenti nella classifica di vendita, tra cui Wired, Economist, Cosmopolitan, Men’s Health, GQ.

Ma una domanda deve mantenerci vigili e lucidi di fronte a notizie come questa: quanto pesa davvero il digitale nei magazine, oggi, e quanto si prevede possa pesare nei prossimi anni?

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Guida da Campo per Giornalisti Smarriti

E se a dirti come vanno davvero le cose, senza nascondere nulla, fosse chi ti dà il lavoro? Succede in un grande gruppo editoriale americano, il secondo del paese con 75 quotidiani. Qui l’amministratore delegato ha scritto ai dipendenti. Per spiegare due cose. La prima è l’ammissione di un errore, una cosa molto tecnica (che non mi interessa): elimineremo l’accesso a pagamento ai siti dei giornali. La seconda molto più importante: la condivisione delle strategie della società. E di tutte le incertezze e le preoccupazioni sul futuro della carta stampata. Una testimonianza del momento

Il post di John Paton, alla guida di Digital First, è stato ripreso a più non posso su Twitter. E sui siti d’informazione.

Egli dice.

Il viaggio dalla carta stampata al digitale sarà lungo. E siamo ancora nella prima parte, quella in salita.

I dollari che si guadagnavano nella carta si sono trasformati in centesimi nel digitale: lo stesso prodotto viene pagato molto meno. Ma i costi che dobbiamo sostenere per andare avanti sono ancora in dollari.
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Negli Usa Si Mettono Regole Alla Native Advertising

Negli Stati Uniti aumenta la preoccupazione sulla native advertising. E si è deciso che la nuova forma di pubblicità, simile ai contenuti giornalistici, dovrà essere etichettata. Per non danneggiare le testate e chi ci lavora

NUOVE REGOLE Qualsiasi cosa sia, la native advertising*, la nuova tendenza nella pubblicità sulla carta e nel digitale, deve essere segnalata al lettore. Lo si dice negli Stati Uniti, dove l’industria e il comune sentire sono allergici alle regolamentazioni ridondanti. In dicembre ci sarà un’audizione alla Federal Trade Commission sui contenuti sponsorizzati, categoria pubblicitaria che si stima possa avere un valore complessivo di 1,9 miliardi di dollari nel 2013. E l’American Society of Magazine Editors (Asme) ha diffuso una versione aggiornata delle linee guida editoriali con indicazione sulle best practices riguardanti la native advertising: prevedono che questa forma di comunicazione, simili ad articoli e contenuti giornalistici, sia sempre chiaramente etichettata sulle pagine e nei siti.

NELL’INTERESSE DI CHI? D’altra parte gli editori americani sanno difendere i loro interessi: si rendono conto che Stato (pubblicità) e Chiesa (giornalismo) devono restare separati proprio perché il lettore se ne accorge e assegna meno valore alle testate che mescolano le due forme di comunicazione. E i giornalisti americani non si fanno garanti del lettore (impostazione etica) ma della qualità del proprio lavoro (impostazione professionale).

Credo che due cose siano chiare.

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Cosa Perdiamo Se Perdiamo le Copertine delle Riviste

Il potere delle copertine delle riviste, la loro capacità evocativa, il fermo immagine dei momenti importanti. Una presenza che stiamo perdendo. E il diluvio di notizie nel digitale lascia senza orientamento

LA FORZA DELLE COPERTINE È il tema tante volte toccato della “produzione di senso”. Una volta affidata ai mass media. Oggi appannata nella dimensione digitale. Ho letto un post sulla forza delle copertina delle riviste. Lo sappiamo, quando azzeccate, le copertine hanno il potere di rievocare i fatti più di qualsiasi altro media. Anzi, partecipano alla costruzione della memoria. Per questo si dice, con espressione ormai stereotipata, che sono iconiche. Rimangono negli occhi. Anche se trovo patetico il paragone con le copertine dei dischi di vinile. Porta … sfiga. (Soprattutto, è sbagliato).

L’ESSENZIALE Ma il post di cui parlo, dal sapore markettaro, coglie un aspetto che si perde nel diluvio quotidiano di tweet e post: la capacità di andare all’essenziale. Di fissarlo. Siamo persi in un mondo di notizie lillipuziane. La rassegna stampa permanente. E sfugge il senso di quel che avviene.

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L’Editore da 500 Milioni di Utenti Unici

Il giornalismo del futuro appartiene a mass media digitali? Grandi editori nati nel web, capaci di raccogliere sotto un unico ombrello centinaia di siti e blog. Con l’obiettivo di 500 milioni di utenti unici. E una sola piattaforma, una sola tecnologia, una sola, grande vetrina pubblicitaria. L’utopia di un Internet libero sbiadisce un po’ di più

DIGITAL COMPANY CRESCONO Proprio mentre in Italia fa notizia l’intervista dell’Espresso a Wolfgang Blau (del Guardian) sul futuro del web dominato da grandi media company come The Guardian, The New York Times, BBC, negli Usa si discute di uno scenario simile. Però con protagonisti diversi. Non gli editori tradizionali, ma compagnie digitali che possono controllare l’informazione e la pubblicità su Internet.

Lo spunto: una grande società di siti web, Vox Media, con centinaia di titoli e giornalisti, sarebbe sul punto di comprare un’altra media company digitale, proprietaria di molti siti e blog, Curbed Network. Per un prezzo, pare, di 25/30 milioni di dollari (viene da sorridere, con “questi” americani, pensando che l’editore tedesco Axel Springer ha pagato nel 2011 oltre 600 milioni di euro per l’acquisto del portale francese di annunci immobiliari SeLoger).

Tanto è bastato per aprire un vivace confronto. Commentatori di primo piano del mondo digitale, come Mathew Ingram (è stato ospite d’onore al Festival internazionale del giornalismo, a Perugia) e voci del New York Times e di Reuters, hanno subito proiettato in avanti le conseguenze di questa acquisizione, immaginandola come il primo esempio di una serie di fusioni che porteranno alla nascita di giganti digitali del giornalismo.

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10 Miti da Sfatare sul Futuro dei Giornali

La stampa è morta? I giornalisti meno giovani non possono adattarsi al digitale? Le nuove forme di pubblicità intaccano le fondamenta dell’etica dell’informazione? Ecco 10 convinzioni diffuse nelle redazioni. Confutate da Mario Garcia.

Mario Garcia, designer americano (nato a Cuba) che ha ridisegnato giornali, periodici e media di tutto il mondo (nel suo sito avete subito un’idea della sua … ubiquità), ha scritto un altro, intrigante post. Riporto solo i titoli dei 10 falsi miti sulla transizione al digitale che circolano nei giornali (leggete il post originale, in inglese, per capire perché si tratta di falsi miti).

1 – La stampa è morta.

2 – Digital First significa non dare importanza al prodotto cartaceo.

3 – I giornalisti di una certa età non possono essere convertiti al digitale.

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Se il Giornalista Deve Essere un Brand

Se ne parla sempre più spesso: il giornalista deve diventare un brand. Costruire un’immagine pubblica, prendere posizione, condividere pensieri, conversare con il pubblico in modo trasparente. Non è una possibilità, sta diventando un obbligo. Perché attraverso il contatto diretto con i lettori/utenti passa l’identità del giornale. Va bene così?

TERRA DI CONQUISTA La questione viene posta sempre più spesso: se il giornalista debba essere un brand.

Vuol dire che i social media creano lo spazio per un contatto diretto tra giornalisti e audience.

Lo spazio della trasparenza.

I giornalisti sono interessati ad occuparlo, perché accarezzano il sogno di diventare dei punti di riferimento.

I giornali sono ugualmente interessati, perché attraverso la conversazione dei giornalisti con il pubblico passa la costruzione del brand della testata (o dell’editore).

Il brand, il marchio: noi siamo la rivista e i giornalisti che le celebrity le trattano così (irriverente: pensate a Vanity Fair); noi siamo la rivista e i giornalisti che la politica l’affrontano in questo modo (sfidandola: pensate al Fatto Quotidiano). Io sono il giornalista che di cucina parla così. Io sono il giornale che di moda scrive in questo modo…

PERSONALIZZAZIONE La conversazione, nei social, diventa personale. E questo tono si riversa, in vari modi, sul lavoro giornalistico.

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Come il Boss di Google Vede il Futuro dei Periodici – The American Magazine Conference

Parlano di giornali di carta i mogul di Internet. Il Ceo di Google, uno dei fondatori di Facebook. Sul futuro dei periodici sono più ottimisti di chi ci lavora. E aiutano a vedere i punti di forza degli Old media nell’era dei New Media

I MOGUL DEL WEB All’American Magazine Conference dei giorni scorsi a Manhattan hanno parlato del futuro dei periodici i nomi più in vista del Web.

I PERIODICI HANNO FUTURO Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook e proprietario del mensile liberal The New Republic (acquistato nel 2012: in anticipo di un anno su Jeff Bezos), pronostica lunga vita per la carta stampata.

I periodici sono l’unione perfetta di contenuti ben realizzati e tagliati su misura del lettore. Un magazine di carta o su tablet presenta una sequenza di articoli, come i capitoli di un libro, ma gli articoli possono comparire separatamente su Internet, come le canzoni di un album musicale. «Cosa più complicata per i quotidiani».

Magazines, Hughes argued before the crowd that had gathered… are the perfect hybrid of a curated experience and a customizable one. A print or tablet magazine offers a sequence of articles, like chapters in a book, but its articles can stand discretely on the Internet, like songs from an album. «That combination bodes well particularly for magazines. Less so for newspapers».

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Boycott Tablet

Chi frena, chi “boicotta” i giornali su tablet? Chi ha ragioni per posticipare la creazione di contenuti giornalistici multimediali. Mettere il freno alla grafica innovativa. Scoraggiare la sperimentazione pubblicitaria?

IL DELITTO Un articolo che fa discutere in questi giorni s’intitola: Chi ha ucciso le applicazioni dei magazine? Se qualcuno ha commesso un omicidio (figurato) chi potrà essere se non: l’editore? A leggere la sfilza di riflessioni internettiane sul flop delle app dei magazine (negli Usa rappresentano il 3,3% delle copie vendute), si arriva alla paradossale conclusione che a boicottare i tablet sarebbero proprio loro, gli editori. Se è così, hanno attenuanti?

Sono responsabili, si dice, insieme a un complice: le associazioni che certificano le copie vendute dei giornali (di cui gli editori fanno parte). Queste hanno stabilito per regolamento che le copie digitali devono essere uguali a quelle cartacee se l’editore vuole farle rientrare nel numero delle diffusioni complessive: se dichiari ai pubblicitari che vendi 100 copie, di cui 80 di carta e 20 digitali, devi far sì che le 20 copie digitali siano repliche esatte di quelle cartacee.

IL MOVENTE Ma questa decisione, dettata da necessita di controllo del mercato, di governo del mercato, si starebbe ritorcendo contro gli editori.

Perché la copia replica non incoraggia a investire nel design del giornale e nell’arricchimento multimediale. Quindi sa di vecchio.

Ci sono molti altri problemi, naturalmente. Non è facile far trovare al lettore il giornale digitale nelle edicole online: sul newsstand di Apple e le altre. Sono sepolte da giochi e altri prodotti. E poiché i tablet sono molto diversi tra di loro, l’editore che decide di investire sull’edizione per iPad di Apple, non avrà un prodotto che “gira bene” sui tablet che usano sistemi diversi (Android etc). Anche la pubblicità si vede bene sui modelli di un costruttore, male su altri. Insomma, chi vuole investire, deve disporre di grandi risorse. Che mancano.

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Multipiattaforma – Cos’è la Rivoluzione per Giornali e Pubblicità

La trasformazione dei periodici, diventati prodotti presenti su più piattaforme. La ridefinizione dei contenuti su tutti i canali nuovi. La sfida della standardizzazione delle metriche per misurare il successo nel digitale. Sono i punti toccati in un’intervista istituzionale ma piena di spunti stimolanti. Il concetto centrale: capire che cosa significa davvero essere giornali multipiattaforma

Parla Mary Berner, Ceo dell’Associazione dei Magazine Media americani, veterana dei magazine, ex Reader’s Digest e Condé Nast. Un’intervista istituzionale ma feconda. Che riprendo e reinvento nella forma. Apoditticamente (ma per gioco). Il concetto su cui tutto ruota è: multipiattaforma.

I CONTENUTI

Multipiattaforma: quanto lavoro in più per i periodici.

Multipiattaforma: devi offrire un grande prodotto non solo sulla carta, ma su tablet, sito web, smartphone. E sei anche in tv, radio, YouTube, Facebook…

Multipiattaforma: la sfida è farsi trovare dai lettori, avere un posto in prima fila nelle edicole digitali, non essere sepolti dai contenuti su internet, farsi acquistare.

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Giornalismo À La Carte – Periodici e Paywall

I siti dei periodici, a differenza dei quotidiani, non sono a pagamento (con eccezioni). Eppure la carta non basta. Si cercano modi alternativi per ricavare denaro nel digitale. Con singoli articoli in vendita, pezzi di copertina dati gratis in cambio di video pubblicitari da guardare, edizioni speciali. Perché i magazine non possono vivere solo di copie per tablet. Anche il web vuole la sua parte (smiley).

SE NASCE THE INTERNATIONAL NEW YORK TIMES Si torna a parlare con eccitazione dei siti giornalistici a pagamento. A smuovere le acque la notizia che il New York Times ha grandi progetti nel digitale. Ieri i vertici del quotidiano più famoso del pianeta hanno annunciato la chiusura della testata gemella, e di proprietà, The International Herald Tribune, fondata nel 1887 come giornale americano che parla al mondo intero. Sacrificata perché rischiava di fare ombra alla espansione globale della testata principale, quel NYT nato come giornale di New York City, diventato da non molto quotidiano nazionale. E ora lanciato nella dimensione internazionale e digitale con il nome di: The International New York Times (sulla logica del power brand, leggete qui). Attraverso la versione per tablet e un sito dove si possono leggere gratis solo un certo numero di articoli. Poi si paga.

PERIODICI SENZA PAYWALL Ma nei periodici c’è poco da far pagare. C’è poco da erigere paywall. Settimanali e mensili non hanno, per definizione, breaking news da vendere (sempre che non si tratti di testate specializzate come l’Economist). La specializzazione è riservata ad alcuni magazine, gli altri sono generalisti.

Come si possono aumentare i ricavi, visto che le edizioni per tablet e mobile faticano, per il momento, a decollare?

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Qualità del Giornalismo nel Web (e il Muro di Berlino tra Carta e Digitale)

Il Muro di Berlino: questa espressione veniva usata nella redazione americana di Wired per indicare l’invisibile ma palpabile distanza qualitativa e di prestigio tra redazione del giornale che usciva in edicola e redazione digitale dello stesso brand. Ma la segregazione sembra superata. Danneggiava entrambi. La qualità della stampa e la velocità dei new media finalmente si incontrano

QUALITÀ DIGITALE? Riprendo alcuni ragionamenti di un bellissimo pezzo uscito ieri su sito web di The Atlantic. Lo firma Bob Cohn, responsabile delle attività digitali della celebre testata.

Parte dalla constatazione che fino a poco tempo fa veniva facile contrapporre il buon giornalismo della carta stampata, accurato, verificato, ben scritto, ben passato, levigato nella grafica. E il giornalismo digitale, veloce, irruento, non curatissimo nella forma ma rapido nel correggere i propri errori. Il web è così, si diceva.

Fino a soli 5 anni fa il web era quasi unicamente testo. Chilometri e chilometri di parole scritte, “piombo”, privo di quella sapienza grafica accumulata dalla stampa nei decenni.

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Time Non È una Rivista: Cos’è un Periodico nel Web

Cos’è il sito di un periodico? E cosa diventa una rivista che abbandona la carta e passa al digitale? A quali condizione può ancora dirsi un magazine? Me lo chiedo il giorno dopo il lancio del nuovo e bel sito dell’Espresso.

LO SPUNTO Due frasi mi hanno colpito in questi giorni.

Il nuovo boss di Time Inc, alla guida del più grande impero editoriale di periodici negli Usa, ha detto: Time non è una rivista (sapete perché?*).

E il Ceo di un prestigioso magazine americano nato come prodotto digitale, Salon, ha ammesso: è stato un errore pensare di essere un magazine online.

LA DOMANDA Che spazio hanno i periodici nel digitale? Difficile dare una risposta dall’Italia, dove i periodici scontano un ritardo nel passaggio all’online.

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Crisi di Governo e Crisi dei Giornali

Ieri sera in pizzeria ho trovato, al tavolo, questa annotazione scritta su un tovagliolo di carta.

«Non so come una crisi di governo possa incidere su un’Italia in difficoltà.

So però come la mancanza di un Governo inciderà sulla crisi dei giornali.

Nelle scorse settimane la Repubblica ha presentato un piano di tagli che prevede l’uscita dall’azienda di circa 80 giornalisti.

Nei mesi scorsi  il Corriere della Sera ha messo in conto di prepensionare o mandare direttamente in pensione 70 giornalisti nei prossimi 4 anni.
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Quando un Giornale Passa al Digitale – Su Newsweek e Lloyd’s List

Lo dice anche The Guardian che quando un giornale lascia la carta per andare avanti solo nel digitale non è un segnale né positivo né negativo, di per sé

Ieri abbiamo visto che Lloyd’s List, il più antico giornale pubblicato nel mondo, abbandona l’edizione cartacea perché ha avuto successo nel digitale.

Ma Newsweek ha fatto la stessa mossa per disperazione: in edicola non va più.

Mi conforta vedere che le considerazioni fatta con molta cautela su un blog amatoriale come questo trovano conferma nelle parole di chi ha esperienza. Non sbaglio di molto.

Chiudo riprendendo una frase da veggente di Jeff Bezos, patron di Amazon che ha comprato quest’estate il Washington Post: i giornali di carta continueranno a vivere per decenni. Moriranno prima i siti web dei giornali.

The Guardian: successi e fallimenti dei giornali che passano al digitale.
The Guardian, logo

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The Media Quartet – Se ha Senso Parlare di Passaggio al Digitale

The Media Quartet. Il quartetto di media. Quattro media: carta stampata, sito web, tablet e smartphone.
Perché non c’è più quell’idea, che ci ha ossessionati a lungo, in base alla quale ci si deve immaginare l’immediato futuro (dei giornali) come un passaggio al digitale. Passaggio, l’attraversamento di un fiume, lasci un tutto alle spalle.
No. Fino a dove arriva lo sguardo, la carta c’è. E la cosa cui dobbiamo saggiamente pensare è la compresenza di quattro media in uno, il Media Quartet. Pensare al quattro, ideare, realizzare, distribuire, sostenere, tutto moltiplicato per quattro.
Questa espressione, “The Media Quartet”, l’ho trovata in questa recentissima intervista a Mario Garcia, famosissimo designer statunitense (ma di origini cubane) di giornali (molti anche italiani) e docente di giornalismo alla Columbia University di New York.
Dice che i media sono quattro. Esploriamo le potenzialità di ciascun mezzo. Sviluppiamo il racconto giornalistico secondo le regole di ciascuna piattaforma. Come fare? E quanto rapidamente? Sono queste le domande che ci devono ossessionare, secondo Garcia. Il Come, non il Se.
Eh, i Quartetti di Thomas Stearns Eliot:

In my beginning is my end. In succession Houses rise and fall, crumble, are extended, Are removed, destroyed, restored (…)

WAN IFRA
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Fenomeno “second screen”: come cambia il modo di guardare la tv

Assistiamo all’esplosione del fenomeno second screen. Quando vediamo la tv, non c’è solo quello schermo. Ma spostiamo lo sguardo anche sullo smartphone e magari sul tablet e il computer portatile. Perché l’esperienza di guardare la tv è cambiata. Una opportunità o un pericolo per gli editori di periodici e guide televisive?

COME GUARDIAMO LA TV Ci penso dopo aver visto alcune ricerche che descrivono come cambia il modo di passare il tempo libero. E il boom previsto nei prossimi anni di internet come media e della pubblicità nel digitale. Hanno a che fare con i periodici? Forse sì.

Avanza il fenomeno second screen. La gente guarda un programma in tv e allo stesso tempo utilizza smartphone e tablet. Per lavorare e farsi gli affari suoi. Ma anche per condividere con altre persone quel che sta passando in tv. Ve ne accorgete quando su Facebook si giudicano con dei like i personaggi di un talent show. Quando su Twitter si sbertucciano i politici ospiti di Ballarò, e lo si fa mentre il talk show va in onda. E ancora, con i commenti a caldo delle partite di calcio e mille altre cose.

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Quotidiani, copiate i periodici – Consigli per il Washington Post

Sviluppare prodotti digitali che cambino la veste grafica vetusta dei quotidiani. Spezzare la schiavitù delle copie replica in Pdf. Imitare la freschezza dei periodici nello sperimentare nuove forme di design. Sono i consigli di un veterano dell’industria a Jeff Bezos, fondatore di Amazon e nuovo proprietario del Washington Post

CONSIGLI AI QUOTIDIANI I consigli vengono dispensati da uno che se lo può permettere, quel Frédéric Filloux, collaboratore del Guardian, che guida il consorzio francese ePress. Sulla Monday Note per il quotidiano britannico, Filloux si rivolge a Bezos, fondatore di Amazon, per ragionare sulle possibili strategie per il Washington Post, comprato a inizio agosto da Bezos. Una riflessione che vale la pena riprendere perché tocca tutti i quotidiani, incerti sul passaggio al digitale.

I PERIODICI SONO PIU’ INNOVATIVI Riporto solo un passaggio, riguarda il design e il taglio dei contenuti del Washington Post. Come svecchiare un quotidiano che sfida la pazienza del lettore quanto a veste grafica? Filloux addita il mondo dei periodici. Sono sempre stati all’avanguardia, dice. Le innovazioni grafiche, nella carta stampata, sono sempre arrivate dalle riviste, per passare poi ai quotidiani.

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La svolta digitale di Gruner und Jahr (e degli altri)

Un altro grande editore tedesco dalle dimensioni internazionali si prepara a investire centinaia di milioni di euro nel digitale. Una strada seguita da altre media company in Italia, Europa, Stati Uniti.

L’EDITORE CAMBIA ROTTA Gruner und Jahr, controllato dal gruppo  Bertelsmann, editore del settimanale Stern e del femminile Brigitte, ha annunciato di essere pronto a investire centinaia di milioni di euro nello sviluppo digitale e in acquisizioni in questo mercato.

L’investimento avverrà in un periodo dai 3 ai 5 anni. E, si legge nel lancio di Reuters che cita un comunicato di Gruner, non ci saranno tagli secchi di posti di lavoro ma un “allineamento” della forza lavoro progressivo, settore per settore, rispetto agli obiettivi. In altre parole, saranno create anche nuove posizioni nelle aree di sviluppo.

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Condé Nast, Vestiaire Collective e un anno di e-commerce nei periodici

Il recente acquisto di un importante portale di e-commerce da parte di Condé Nast International ha riacceso l’interesse per le potenzialità di questa fonte alternativa di ricavo per gli editori

FENOMENO E-COMMERCE Condé Nast, che pubblica Vogue, GQ, Glamour, ha acquistato per 20 milioni di dollari una quota di Vestiaire Collective, sito francese che vende abiti e accessori di lusso. Si tratta di un marketplace, una vetrina, in cui si possono proporre capi e oggetti usati, ma accuratamente selezionati, dal valore di migliaia di euro. Anche di più. La società proprietaria del portale trattiene il 33% della somma pagata.
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Editori in transition 2: a che punto siamo (mappa del cambiamento)

La trasformazione dei periodici in realtà multimediali, le redazioni integrate, i nuovi giornalisti: continua la rilettura del piano di sviluppo di un grande editore, uscito 5 mesi fa. Può aiutare a capire i cambiamenti nel mondo dei quotidiani e dei periodici.

NON CHIAMATELI PERIODICI Il piano strategico di RCS Mediagroup, che rileggiamo a 5 mesi dalla pubblicazione, cambia il nome dei periodici. Il passaggio dedicato alle trasformazioni delle riviste usa un termine nuovo: verticali. Si dice esplicitamente che si passerà da un portafoglio di testate periodiche a “ecosistemi” editoriali, strutture di produzione multimediali, specializzate in uno specifico target (verticali, appunto): donna, lifestyle, casa/design, bambino.

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Editori di giornali in transition: a che punto siamo (mappa del cambiamento)

Il piano per i prossimi anni di un grande editore di giornali aiuta a capire quale percorso è stato intrapreso da chi nel mondo pubblica quotidiani e periodici. Con stati di crisi, riduzioni di organico, ridefinizione dell’organizzazione redazionale, taglio dei costi, trasformazione dei prodotti, nuovi contenuti.

RILEGGERE UN PIANO Sì, rileggere serve non solo a capire meglio. Se fatto a giusta distanza di tempo, le esperienze arricchiscono di significato la prima lettura. Posso così dire che riprendere in mano e sfogliare a 5 mesi dalla diffusione il Piano 2013-2015 di Rcs Mediagroup mi ha dato una maggiore profondità di visione. È come avere una mappa che ti dice dove ti trovi. Sto parlando del piano proprio di questo editore non per giudicarne le scelte ma semplicemente perché la società ha reso pubbliche le sue strategie nella fase della ricapitalizzazione.

Riporto alcuni punti del piano, quelli più vividi alla luce degli avvenimenti di questi mesi. Mesi in cui Rcs, ma non solo, ha chiuso testate, rivisto l’offerta di prodotti, avviato tagli dei costi e novità digitali.

LA PREMESSA: C’E’ UN VALORE DA DIFENDERE 1) I cambiamenti aziendali sono dettati non solo dalla crisi che ha colpito il settore della carta stampata ma anche dalla comparsa di concorrenti non tradizionali che non stampano giornali ma offrono contenuti e servizi nel digitale. Con la conseguenza di togliere pubblicità e audience agli editori. Come scritto su questo blog, perdi un lettore anche se questo decide di passare il suo tempo libero non leggendo giornali ma cazzeggiando sui social network. 2) Un editore di giornali importante (nel caso di Rcs, un leader) parte dalla consapevolezza di possedere attività ritenute ancora autorevoli, forti, popolari, utili e interessanti per milioni di persone, testate capaci di fornire contenuti di valore. 3) L’obiettivo è dunque conservare rilevanza. Lo si fa, a leggere il Piano, offrendo al pubblico nuovi prodotti, anche digitali; riorganizzando le attività per dare più agilità ai processi; riducendo i costi, soprattutto nelle aree che stanno sperimentando una caduta dei fatturati e degli utili; cambiando cultura aziendale. Si dice che bisogna farlo in modo “rapido” e “radicale”.

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A cosa serve l’accordo a sostegno dell’editoria

Chiunque lavori nei giornali sarà toccato: governo e protagonisti dell’editoria hanno raggiunto a inizio agosto un accordo per il sostegno al mondo dei media investiti dalla crisi strutturale. Per risolvere quali problemi?

Non è possibile dare un giudizio decisivo perché l’intesa è lontana dal passaggio parlamentare. Soprattutto, non è stata trovata la copertura finanziaria per una misura che prevede una disponibilità di 40 milioni di euro all’anno, per tre anni. 120 milioni.

COSA PREVEDE Risorse rilevanti? E rispetto a quali tra gli 11 obiettivi fissati nell’accordo? Sono previsti, tra l’altro, il sostegno alle start-up digitali, all’innovazione tecnologica, al ricambio generazionale e delle competenze nelle redazioni, la modernizzazione della rete di distribuzione (edicole), il finanziamento dei prepensionamenti e alla sicurezza sociale nei casi di crisi aziendale (prepariamoci: presto altri editori apriranno stati di crisi). E dunque, quale può essere l’efficacia dell’intesa in rapporto ai fini che essa si pone?

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Perdere copie ma conquistare mercato – Riflessioni su un editore francese

Il principale editore di periodici francese, Lagardère, punta a guadagnare quote di mercato. A prendere il posto dei suoi concorrenti. Anche se per il momento perde copie e pubblicità. Come tutti

I PERIODICI HANNO FUTURO La notizia su Lagardère aiuta a fare un confronto con l’Italia, a capire che le difficoltà della stampa nel nostro Paese non sono un unicum. Al tempo stesso, l’editore francese fa vedere che si può portare avanti una politica di lanci mirati. Un segnale che il settore, seppur ridimensionato, non sarà smantellato.

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Il modello del New York Times, i periodici, i media

Tre pennellate nell’acquerello di come cambiano periodici e media.

Riprendo tre passaggi di un intervento di Ken Doctor, consulente americano che si occupa dei media, uscito su Nieman Journalism Lab, sito che per me e’ un punto di riferimento sui cambiamenti nel giornalismo (e’ un laboratorio legato alla universita’ di Harvard).

Parliamo di periodici e media, ma Ken Doctor analizza i risultati semestrali del New York Times, i ricavi, le novita’ in quella che e’ una delle testate che reggono la fiaccola del passaggio progressivo al digitale. Modello di business cercasi, come dicono gli esperti; e il Times ci sta provando, a trovare un modo per tenere in piedi il giornalismo.

Torniamo a noi.

Prima pennellata. Il New York Times cerca nuovi modi per fare ricavi stabilendo alleanze con societa’ che forniscono contenuti, thid-party, come si dice in gergo. Contenuti che non vengono prodotti dalla redazione ma comprati gia’ confezionati allo scopo di arricchire l’offerta digitale e del sito. Non e’ crescita organica. Per cui il Corriere della Sera o una rivista italiana non fa tutto in casa: compra all’esterno, stringe alleanze. Un futuro promettente per service e produzioni video. O intese tra gruppi editoriali della carta e gruppi televisivi: pronto?! In Italia ci sono per caso editori che possiedono giornali e tv, o che hanno appena fatto acquisti in tal senso?

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Annotazioni sulla qualità dei giornali (partendo dal Lucignolo di Mediaset)

Ci sono due partiti. Quello di chi sostiene che la crisi della carta stampata sia anche dovuta alla sempre più scadente qualità delle riviste. E il partito di chi pensa che, proprio perché le difficoltà economiche hanno ridotto l’importanza della pubblicità nei giornali, come fonte di guadagno, l’attenzione al lettore sia cresciuta.

Questo post apparentemente non c’entra nulla con i periodici, il tema del blog. Ma facendo un giro più lungo del solito, alla fine arriverò a parlare anche di riviste.

Ho letto una serie di articoli sulla prossima stagione televisiva di Mediaset. Si parla dei programmi che andranno in onda dall’autunno, quelli consolidati, le novità, la revisione di formule storiche.

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Record di pubblicità sulle riviste fashion americane – Formule giornalistiche che funzionano

I giornali fashion americani fanno il pieno di pubblicità sui numeri che usciranno in settembre. Per le riviste di Hearst, Time Inc., Condé Nast la raccolta di pagine registra numeri da record, riportando ai tempi di prima della crisi. Una notizia che contrasta con le difficoltà dei newsmagazine.
 
Il meteo della carta stampata è fatto di improvvisi cambiamenti di umore. Solo la scorsa settimana si diceva che i newsmagazine americani, le riviste di attualità politica ed economica, registrano un preoccupante calo nelle pagine di pubblicità. Il più pesante dopo il 2009, annus horribilis dei giornali. Ma se passiamo alle riviste di moda e lifestyle il panorama è completamente diverso. Si passa dalla tempesta al sole splendente. La notizia è stata riportata da tutte le riviste che si occupano di editoria (per i dati, potete leggere gli articoli del sito di Adweek, riportati in link alla fine di questo post). Le riviste sono conosciute anche in Italia: Vogue, Elle, Marie Claire, Glamour, InStyle.
 
Quali conclusioni ricavarne? Che la crisi colpisce in modo differente le pubblicazioni, mettendo sotto pressione formule come i newsmagazine e dando invece una prospettiva di recupero per i giornali del lusso, di lifestyle, femminili? Lo abbiamo sentito dire spesso.
 
O siamo di fronte a dinamiche tutte statunitensi? Non sembra, anche se ogni Paese ha le sue caratteristiche (per cui la ripresa arriverà più rapidamente negli Usa che in Europa, con l’Italia fanalino di coda).

Adweek: Condé Nast fa il pieno di pubblicità per settembre 2013.

Adweek: Vogue fa il pieno di pubblicità per settembre.
Adweek

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Perché preoccupa l’aumento dell’Iva sui collaterali delle riviste

Confermo che la decisione del Governo di aumentare l’Iva sui prodotti collaterali, venduti insieme ai giornali, portandola dal 4 al 21 %, è un grosso problema.

Dissento da chi minimizza, ignora, irride, trova scandaloso il problema dei collaterali, problema che riguarda, per chi non è dell’ambiente, i cd, dvd, libri, borsette, collane, «bamboline», venduti in edicola insieme alle riviste e ai quotidiani. Un equivoco, il pensare che si tratti di una faccenda secondaria e priva di conseguenze, in cui cade anche chi conosce a fondo il mondo dei giornali.

LA NOTIZIA. Gli editori hanno lanciato al Governo, l’altro giorno, un appello affinché l’Esecutivo torni sui suoi passi e non proceda con l’aumento dell’Iva, con un’incidenza che, su una parte di questi prodotti, dovrebbe passare dal 4 al 21%. Una iattura per editori ed edicolanti, questi ultimi convinti di perdere, se la misura non dovesse essere rivista, il 35% dei ricavi (non proprio nei ricavi, ma questa è la sostanza).

No, non è il solito pianto del commerciante.

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La differenza tra edizione digitale, sito web e app nei giornali

Ho ancora le idee confuse sulla differenza tra sito web di un giornale, app per mobile ed edizione digitale dello stesso. Quali i vantaggi dell’uno o dell’altro per un editore, quando puntare su uno in particolare?

Posso dire che un breve articolo di Folio Mag mi ha aiutato a vederci più chiaro. Guardate anche voi.

Per dire, l’app (quel software del giornale che carichiamo sullo smartphone o il tablet e poi vediamo come un’icona) diventa conveniente, nonostante abbia un costo alto di creazione e manutenzione, perché presuppone un uso più frequente da parte del lettore. Solo i più fedeli la scaricano sul proprio smartphone o tablet. Ma garantiranno un maggiore coinvolgimento nell’esperienza di lettura, con più tempo passato sulle pagine del giornale e maggiore partecipazione alla condivisione dei contenuti e al commento.

L’edizione digitale è, anche negli Stati Uniti, una replica della testata di carta, ma non so se questo consolerà chi sogna prodotti arricchiti. Piace ai pubblicitari, che infatti sono disposti a pagare le inserzioni tanto quanto la pubblicità sull’edizione di carta (sappiamo che la carta spunta prezzi più alti, il sito molto meno, lo smartphone pochissimo). Insomma, sull’edizione digitale si può riproporre il modello di business della carta, e i lettori spendono circa 43 minuti per ogni sessione di lettura. Decisamente più di quanto avvenga sul sito e nelle app.

Interessante anche riflettere sull’equilibrio che l’editore deve trovare tra costi e benefici. Questo è un ragionamento maturo, non il volo della fantasia a immaginare edizioni per iPad che nessun lettore può ripagare.

Buona lettura!

Folio: differenza tra app, digital edition, sito web.

Folio

Folio

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Come Hearst Usa sta aprendo una nuova strada nel digitale dei periodici

Un milioni di lettori solo digitali, non molti ma sufficienti per costruire una strategia di sviluppo delle testate di Hearst Usa nel territorio ancora inesplorato dei nuovi media, con progetti per aumentare i ricavi, far crescere la pubblicità, pensare a nuovi modelli.

Se ne parla in un articolo uscito nel sito di Nieman Lab: si spiega come l’editore americano Hearst stia esplorando una nuova strada nello sviluppo digitale dei periodici. Un modello diverso, alternativo a quello dei tedeschi di Axel Springer, gli unici ad aver passato con successo il guado che separa la carta stampata dal digitale. Springer ha pestato sull’acceleratore dell’e-commerce, Hearst coltiva lettori digitali.

L’articolo, scritto dal superconsulente Ken Doctor, esperto di carta stampata ed evoluzione digitale dei giornali, ha questi punti d’interesse:

1) Hearst è l’unico editore ad avere un discreto numero di lettori digitali negli Usa: un milione tra abbonati e acquirenti di singole copie digitali. Circa il 4% dei lettori dei 21 titoli della società.

2) L’editore di Cosmopolitan, a differenza di tutti gli altri editori di periodici, ha sviluppato una strategia che mette al centro il lettore digitale. Non chi legge carta e digitale insieme, ma solo il digitale. Come sappiamo, quasi tutti gli altri puntano invece a coccolare e a non perdere i propri lettori tradizionali, quelli della carta.
3) I lettori digitali hanno un profilo diverso dagli altri, più interessante per chi vende giornali: sono più giovani, più benestanti, disposti a spendere. Non a caso Hearst fa pagare l’abbonamento digitale più della carta. Non lo svende, come si fa di solito. Crea invece valore sulle nuove piattaforme, restituisce valore dopo anni di svendite e contenuti gratuiti.
4) La casa editrice sta elaborando nuove strategie anche nella vendita degli spazi pubblicitari. In parte se ne è già parlato su questo blog. Interessante un passaggio di questo nuovo articolo in cui si dice che Hearst è tornato a vendere spazi, lasciando alle agenzie il compito di creare spot e pubblicità per il digitale, anche con arricchimenti multimediali. Altri editori, invece, si sono trasformati anche in creatori di pubblicità. Time Inc, ad esempio. Un errore?
5) Secondo quel che si legge nell’articolo, la strategia seguita da Hearst mette questo editore in posizione di vantaggio, in vista del progressivo passaggio al digitale. Avrà competenze, lettori, conoscenze. Chi invece mira innanzitutto a tenersi stretti i propri lettori sulla carta, ha una prospettiva di breve termine, tre, cinque anni.
6) Il tablet viene visto come lo strumento su cui, in futuro, si leggeranno i periodici. Dicono un dirigente, citato nel pezzo, e l’autore dell’intervista:

“We knew when the iPad came out, we would finally be able to build our business.” The iPad revolution completely changed the magazine industry’s potential trajectory.

7) Un milione di lettori unicamente digitali sono pochi. Per il 2016 si prevede che saliranno al 10% del totale degli abbonati. Ancora poco. Ma è una strada su cui investire. Perché, per tornare a Hearst Usa, i costi di stampa e distribuzione sono il 30/40 per cento dei costi totali. Ridurli, grazie al digitale, significa far crescere i margini, il ricavo netto.

Il punto: come immaginare tempi e modi dello sviluppo digitale dei periodici.

Nieman Lab: l’esempio dei periodici americani di Hearst.

Nieman Lab

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Le star di Hollywood non trainano più le vendite dei giornali – Celebrity e periodici

Le riviste americane non vanno più a rimorchio delle star di Hollywood. Meglio mettere in copertina un personaggio televisivo o una modella. Le attrici del cinema vengono viste dai lettori come distanti dalle loro vite. Meglio la celebrity della porta accanto.

Non capita di frequente di poter entrare nel laboratorio dei giornali e vedere i dati di vendita e altri segreti. L’articolo del New York Times, ripreso da molti siti e blog, riporta notizie che fanno capire quali ragioni guidano i direttori nella scelta delle star da mettere in copertina.

Si racconta di come ci sia stata un’epoca in cui le star del cinema facevano vendere più copie se messe in copertina. Ora veniamo a sapere che Glamour ha scelto per metà delle volte come volto da copertina attrici del cinema nel 2012. Ma il numero che ha venduto di più lo scorso anno è stato quello di maggio, con Lauren Conrad, ex star di un reality show: 500.072 copie. Così nel 2013 Glamour vuole ridurre il numero di star del cinema in copertina.

Ci sono esempi simili con Cosmopolitan e Vogue. Modelle e cantanti vanno molto bene.

Le star della musica e della tv “funzionano” perché viste come vicine ai lettori, accessibili, le vedi più volte nel corso di un anno. Inoltre non “se la tirano” per concedere una copertina a un giornale. Le star della tv parlano più volentieri della loro vita, dei problemi di peso, delle relazioni sentimentali, dei figli. A molti giornalisti è capitato invece di fare innocenti domande a star del cinema, riguardanti aspetti privati, e di sentirsi dare risposte molto trancianti.

Di conseguenza star della tv e della musica hanno una dimensione social molto sviluppata, e la cosa ingrana con le esigenze del mondo della comunicazione, dai giornali alla pubblicità.

Unica eccezione, scrive il New York Times, Angelina Jolie: lei è molto più di un’attrice.

New York Times: svanisce sulle copertine l’allure delle star del cinema.

New York Times

New York Times

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Crisi dei giornali e Croce Rossa – Ironia involontaria

Ieri, rileggendo in serata il mio ultimo post, quello sulla crisi dei giornali in Italia, mi sono accorto che WordPress aveva caricato nella mia pagina una pubblicità (non ho ancora attivato l’opzione per avere un blog libero da inserzioni). Era uno spot della… Croce Rossa americana. Giuro che l’accostamento con lo stato dell’editoria italiana, piuttosto preoccupante, è stato puramente casuale.

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Cronache dal mondo fluttuante: Banzai, e-commerce e futuro dei giornali

Il nome della società è Banzai: sono quelli di alcuni popolari siti web come Giornalettismo, Giallo Zafferano, Liquida, Soldionline. Partono all’attacco di Amazon. Puntano sull’e-commerce, la vendita di prodotti online, con cui si stanno affermando. Si sono allargati ora a giocattoli, elettrodomestici, casalinghi, tempo libero. E mettono insieme vendita al dettaglio e contenuti editoriali.

Se ieri il mio post quotidiano descriveva lo stato di crisi dei giornali, e la difficoltà di far tornare i conti delle case editrici, con l’emorragia di copie vendute e pubblicità della carta stampata, il pensiero oggi va al futuro dei periodici. E alla strada considerata da molti come l’unica che, al momento, possa ridare fiato e prospettiva alle società che pubblicano giornali.

Riprendo un articolo del Corriere della Sera (lo trovate in link alla fine di questo post) per mettere in luce la relazione tra commercio elettronico ed editoria.

Si parla di Banzai, la società digitale, attiva nel commercio elettronico, che ha acquistato tre dei principali siti di e-commerce italiani: MisterPrice, ePlaza, Bow. Rafforzando la leadership nelle vendite online. Banzai, infatti, porterà da 130 a 170 milioni di euro il giro d’affari per quest’anno, con l’obiettivo di arrivare a 200 milioni. Una frazione, è vero, del commercio elettronico in Italia, che ha un fatturato di 9,5 miliardi di euro. Paolo Ainio, Matteo Arpe, sono i nomi di Banzai, dicono molto a chi legge di queste cose, se non li conoscete date un’occhiata all’articolo del Corriere.

Ma il punto vero da sottolineare è che Banzai vuole fare la guerra ad Amazon.

Faccio tre considerazioni. La prima è che Amazon vende articoli di ogni tipo, esposti all’interno di un’unica vetrina, mentre Banzai vuole creare contenitori specifici per ciascuna categoria merceologica: elettonica, casa, giocattoli. Insomma, si punta sui siti verticali per sconfiggere l’avversario generalista. E io noto che generaliste sono molte delle testate giornalistiche italiane. Ma questa è solo una suggestione.

La seconda sottolineatura riguarda i gusti degli italiani: la fetta maggiore dell’e-commerce è locale. Vuol dire che la gente compra solo da siti nazionali, non dai portali internazionali.

La terza osservazione riguarda la natura doppia di Banzai: c’è Banzai negozio on line, c’è Banzai editore. Quello, appunto, di Liquida, Giallo Zafferano, Giornalettismo.

Ecco il pensiero. Gli editori di periodici dovrebbero prendere maggiormente in considerazione il commercio online come sostituto della pubblicità, la quale, nella dimensione digitale, vale molto poco e non può aspirare a compensare le perdite subite dagli editori nella carta stampata. In altre parole, gli editori di giornali non possono pensare di ricreare nel digitale quel mix di ricavi da copie vendute e pubblicità che ha tenuto in piedi per decenni le testate in edicola. L’unica strada vera è l’e-commerce, per volumi di scambio e ricavi. Ma in Italia siamo in ritardo. L’esempio di Axel Springer o Burda, editori tedeschi che stanno affrontando in modo promettente la transizione dei giornali al digitale, non è stata replicata. Sorge allora un dubbio. Società come Banzai soppianteranno un giorno gli editori tradizionali? Non ci vuol molto denaro per comprare brand giornalistici storici. Soprattutto se si fa e-commerce con successo.

Corriere.it: Banzai sfida Amazon.

Corriere della Sera

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Ripensando le riviste di attualità – Il declino di Newsweek

Le ipotesi di vendita di Newsweek, la testata americana che a fine 2012 ha chiuso l’edizione di carta. La parabola del giornale nei ricavi e nelle copie vendute. E le domande sul futuro di questa formula editoriale. Che ha bisogno di essere ripensata. In tutto il mondo.

Giorni fa un collega di un quotidiano mi parlava dei problemi dei periodici. Mi sono accorto che nella sua rappresentazione mentale i magazine coincidono con i settimanali di informazione politica. Insomma, aveva in mente l’Espresso. Ma i newsmagazine sono una componente assolutamente minoritaria delle riviste pubblicate in Italia e nel mondo. Non ci sono più l’Europeo, Epoca, e tanti altri titoli che hanno fatto la storia dell’informazione giornalistica.

Dico questo perché Newsweek, il newsmagazine per eccellenza insieme a Time, è tornato a navigare in cattivissime acque, dopo il passaggio traumatico dalla carta alla sola dimensione digitale, avvenuto lo scorso dicembre. Bisogna dare un giusto contorno a questa parabola giornalistica.

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Negli Stati Uniti aumentano i lettori dei periodici – Dati sulla readership primavera 2013

Negli Stati Uniti sale il numero dei lettori, l’audience dei periodici, al contrario dell’Italia, dove il lettorato dei periodici è in discesa. Vi chiedo di dare un’occhiata ai numeri ma anche al tipo di testate che ottengono le performance migliori. Incluse quelle che vendono di più in ambito digitale (tra cui Tv Guide).

Il Survey of the American Consumer di GfK MRI dice che l’audience complessiva dei periodici statunitensi è cresciuta in un anno del 3%, raggiungendo 1,2 miliardi di lettori. Ricordo che questo numero somma i lettori di tutte le riviste, sia quelli che acquistano o ricevono in abbonamento la testata, sia quelli che la trovano in casa, perché comprata dai familiari, o in luoghi pubblici (il barbiere…).

L’articolo di Adweek elenca i titoli a maggiore crescita, tra cui (tenetevi forti) Diabetes Forecast, Yoga Journal, Psychology Today. Tante testate che parlano di cibo, da Food Network Magazine a Eating Well. Ma anche The Atlantic, The Economist, New York magazine e The New Yorker.

Perdono in maniera rilevante i giornali di moda e i maschili (American Hunter, Golf Digest, Maxim).

Nel digitale si osserva che la percentuale è ancora una frazione ridotta delle letture complessive, 1,4% del totale, con crescita annuale dell’83% a 16,9 milioni di lettori. Osservo che tra i più letti in versione digitale c’è Tv Guide, con 705.000 lettori: un buon segno per le guide televisive, giornali che hanno un futuro segnato ma continuano a vendere moltissime copie e dunque sono uno degli assi portanti di qualsiasi editore abbia un titolo in quest’area. La crescita nel digitale indica una strada per queste testate.

La domanda vera, tuttavia, è questa: perché il numero di lettori aumenta e le copie vendute in edicola calano vertiginosamente? E per quale ragione si calcola la readership? Al primo quesito è arduo rispondere. Mentre il secondo mi fa venire la voglia di dire che gli editori raccolgono stime sulla audience complessiva per dimostrare che i loro giornali sono ancora efficaci a livello pubblicitario (per approfondire, guardate qui: http://www.consterdine.com/articlefiles/42/HMAW5.pdf): nonostante la crisi, continuano a raggiungere fasce larghe di popolazione.

Adweek: l’audience dei periodici statunitensi. 

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Per competere con Google non cercare di imitarlo, editore!

Come gli editori possono competere con Google e le grandi compagnie digitali non giornalistiche nella caccia alla pubblicità online? Un articolo uscito nel sito di Nieman Lab racconta le strategie di quattro realtà giornalistiche americane che si sono mostrate innovative.

Quel che mi colpisce della indagine di Ken Doctor, esperto di editoria di cui questo blog si è già occupato, è la messa a fuoco di un punto: gli editori di prodotti giornalistici non devono inseguire Google e le altre compagnie digitali sulla strada dei contenuti a basso prezzo. Da sempre la stampa propone contenuti premium, rivolti a fasce demografiche e sociali bene individuate, dunque appetibili per le aziende. Questo va fatto anche nel digitale. Altrimenti si è destinati a soccombere.

Sono concetti che aprono gli occhi a chi, come me, non s’intende di new media, lavora nella carta stampata e non riceve una formazione per capire le logiche del digitale.

Per dire… Facebook, che negli Usa raccoglie un quarto della pubblicità nel digitale, vende lo spazio agli inserzionisti a 80 centesimi di dollaro ogni mille impressioni, mille pagine viste. Ma a questi prezzi nessun editore può sopravvivere, perché produrre contenuti giornalistici costa molto, e non ci si sta dentro. Questo ormai mi è chiaro. Gli editori, dice Ken Doctor, vogliono, devono guadagnare da 20 a 50 volte di più.

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Idee da copiare nel nuovo sito di Newsweek /2

È stato lanciato questa settimana il nuovo sito di Newsweek. Ne ho parlato qui. Torno sull’argomento perché ci sono concetti da esplorare, laggiù. Come il rifiuto della logica delle breaking news, per il sito di un newsmagazine. E la rilevanza di immagini e strumenti di condivisione.

La passione per come vengono disegnati i giornali mi fa tornare sull’argomento: c’è molto da dire sul restyling del sito di Newsweek. L’obiettivo, dicono gli autori dell’operazione, è ricreare sul digitale l’esperienza del long form content, gli articoli lunghi, un compito svolto non bene, finora. Si sostiene che sfuggire alla logica delle breaking news è, per una pubblicazione settimanale, una raison d’etre.

“We felt there was still a place in the media landscape for taking a step back, reflecting, and framing the week…this idea that there’s been a set of editorial decisions about what the most important things are to focus on.”Here he’s talking about the irritating, pageview-grabbing tactics like splitting long articles up into a dozen smaller chunks, hiding visual content behind endless, slow-moving slideshows, and throwing any and all news against your screen in the hope that some of it will stick.

Abbiamo pensato che c’era ancora uno spazio, nel panorama dell’informazione, per fare un passo indietro, riflettere, e sezionare la settimana… l’idea che una serie di valutazioni editoriali giustifichino la scelta di quali siano gli avvenimenti su cui concentrare l’attenzione. Superando le irritanti strategie che portano, per fare più pageview, a spezzare gli articoli, mortificare l’immagine con noiose foto gallery, trucchetti per far girare le news.

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Vendono solo i bookazine – I periodici americani nel primo trimestre 2013

I primi tre mesi del 2013 hanno registrato negli Stati Uniti il maggior calo di sempre nelle vendite di periodici.

Nel primo quarto dell’anno i fatturati sono scesi dell’11 per 100 e le copie vendute sono crollate del 14,5 per 100.

Soffrono i periodici più diffusi e popolari, i primi 50. Che incamerano il 97 per 100 delle perdite. Pari a 96 milioni di dollari. Tengono meglio gli altri, dal 51esimo al 1000esimo.

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Dall’obiettività al giornalismo dell’interpretazione – Una ricerca della Columbia sull’era digitale

Una ricerca della Columbia University mostra come il giornalismo che riporta i fatti stia lasciano il posto al giornalismo che interpreta la realtà. C’è uno spostamento dal resoconto degli avvenimenti, nel nome dell’obiettività, all’analisi di quel che accade. Un processo iniziato negli anni Novanta e accelerato dal digitale. Perché nel web si celebra l’orgia delle notizie. Ma la gente ha bisogno di significato.

Lo abbiamo detto mille volte, il Web è il regno della notizia ridotta a commodity, qualcosa che viene riportato e copiato mille volte, senza valore aggiunto, un moltiplicatore che toglie valore al lavoro di chi raccoglie i fatti e li riferisce. Per questo, si dice, l’informazione è diventata gratuita e i giornali sono entrati in crisi. Encefalogramma piatto.

Ma nell’epoca dei reporter della porta accanto (il citizen journalism, il giornalismo partecipativo) si sente la mancanza di qualcuno che sappia spiegare il significato dei fatti, che li interpreti e dia una bussola alle persone.

Da qui l’analisi della Columbia University di New York che ha provato a quantificare le notizie presenti sui giornali americani, dal 1955 a oggi, dividendole in quattro categorie: coventional news, cioè il resoconto di qualcosa che è accaduto nelle ultime 24 ore; contextual news, storie che contengono analisi, interpretazione, spiegazione; investigative journalism, che mette sotto la lente i poteri e i potenti; social empathy, storie di persone interessanti.

Il risultato è la crescente importanza delle contextual news, dunque le analisi e le interpretazioni, rispetto alle conventional news, il semplice resoconto. Cliccate sulla tabella per ingrandirla e vedere i risultati dello studio della Columbia.

tipologie di giornalismo

Perché questo sta avvenendo?

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Ridisegnando Newsweek – Come deve essere il sito web di una rivista

Ho iniziato a leggere l’articolo di Nieman Lab intitolato Shetty talks Newsweek’s relaunch, user-first design, magaziness, and the business model, sul rilancio della rivista d’attualità statunitense Newsweek e la presentazione della versione beta del sito, pensando che la cosa interessante fosse capire come un newsmagazine, tipo l’Espresso e Panorama, possa riproporsi come sito web leggibile e di successo.

Mi sono trovato invece davanti a cose, spiegate da Baba Shetty, amministratore delegato di The Newsweek Daily Beast Company, che edita appunto Newsweek, che possono avere una validità per qualsiasi rivista voglia affermarsi nel mondo digitale.

Di cosa parlo. Shetty spiega come è stato ridisegnato il sito di Newsweek, il newsmagazine americano che dal 2013 esce solo in digitale, avendo dato l’addio alle edicole e all’edizione cartacea.

Nell’articolo si parla di tante cose, dall’accesso a pagamento al sito di Newsweek (che scatterà più avanti: correte dunque a vedere com’è newsweek.com, fino a quando è free) a come fare pubblicità in modo intelligente nel web.

Ma all’inizio di questa intervista pubblicata da Nieman Lab, fondazione per il giornalismo dell’università di Harvard, Shetty elenca quali caratteristiche di un magazine devono essere conservate nel sito web della rivista.

Ecco che salta fuori il concetto di magazineness, l’essenza del magazine. Cos’è un periodico? Cosa di un periodico deve essere conservato nel digitale, per riprorre al lettore la stessa esperienza di lettura della carta?

Il concetto di magazine viene decostruito.

Non c’è imitazione del giornale cartaceo, ma si conservano i concetti.

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Cosa succede se non leggi più il giornale a colazione – Lo stato dei media nel 2013

Il giornalismo sta attraversando un periodo di grandi opportunità, non solo di bilanci in rosso? Alan Murray, ex giornalista del Wall Street Journal e presidente del Pew Research Center, spiega invece qual sia l’esatta condizione dei giornali. Si va al punto: la perdita di pubblicità, l’irrilevante crescita delle copie vendute, la frammentazione dei new media.

Prima di lasciare spazio all’entusiasmo per il digitale, bisognerebbe capire cosa sta succedendo al giornalismo e quali saranno le conseguenze per le testate e per chi ci lavora. Una sintesi viene fatta da Alan Murray, per cinque anni responsabile dello sviluppo digitale del Wall Street Journal, presidente da alcuni mesi del prestigioso Pew Research Center, organizzazione no profit che ogni anno rilascia un rapporto sullo Stato dei media. Potete ascoltare l’intervento di Murray alla George Washington University School of Media and Public Affairs. Ma ho selezionato alcuni punti e li ho sintetizzati in italiano. Potete leggerli qui sotto.

Sì, anche al Wall Street Journal, grazie al digitale, l’audience complessiva non è mai stata alta come in questi anni. 10, 15 volte superiore a quella che il giornale ha avuto nel periodo d’oro. Questo significa che il Wall Street Journal è in grande salute? Purtroppo no. In tutto il mondo avanzato, a causa dell’esplosione della comunicazione digitale, non c’è più un modello di business per i giornali, non si è ancora trovato il modo per ripagare e tenere in piedi il business.

 

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