Ovvero, ritornare al concetto che le notizie sui giornali sono frutto del lavoro di qualcuno e, in quanto tali, prodotti che vanno pagati da chi li consuma. Come un romanzo. Come la musica registrata. Al servizio pubblico pensa, o dovrebbe pensare, la Rai. Nelle biblioteche, luoghi bellissimi dove vorrei passare le giornate, si può leggere gratuitamente, e anche nei bar, pagando un caffè per sfogliare i giornali e accedere alle notizie intese come commodity, «ovvero un bene che può essere fruito, senza differenze sostanziali, da più fonti informative» (news come commodity).
E’ sempre stato così (con l’eccezione delle tv generaliste e della radio). Ma internet ha distrutto questa semplice verità
Grazie ai motiri di ricerca possiamo accedere alle notizie dei giornali senza pagar nulla. Possiamo leggere estratti dei principali articoli pubblicati online dai quotidiani. I motori di ricerca, Google in testa, aggregano notizie e traggono enormi profitti dal lavoro di editori e giornalisti, grazie alla pubblicità.
In Italia Google ha superato quest’anno in settembre la Rai nella raccolta pubblicitaria. Già due anni fa internet, nel nostro paese, faceva ricavi pubblicitari equivalenti a quelli dell’intero settore dei periodici, e la metà veniva intascata da Google. Se Fabio Vaccarono ha lasciato lo scorso luglio Manzoni advertising, concessionaria di pubblicità de L’Espresso, per diventare country manager di Google Italia, un motivo c’è. Ed il motivo è che il gigante dei motori di ricerca vuole crescere ancora e raggiungere in pochi anni un fatturato pubblicitario equivalente a quello di Mediaset. In altre parole, Google vuole diventare Mediaset, quel che il principale gruppo televisivo privato italiano è stato nei passati 30 anni.
Non deve quindi stupire (arriviamo alla notizia di questo post, ci arriviamo dopo una lunga introduzione, trasgredendo alla regola numero uno del giornalismo: notizia nell’attacco) la richiesta avanzata in questi giorni dalla Fieg, la Federazione italiana editori giornali, che chiede una legge per tutelare il diritto d’autore verso Google, gli aggregatori di news online e internet nel suo complesso.
Gli editori italiani della Fieg annunciano che la loro azione averrà di concerto con gli editori francesi, i quali, bisogna dire, sono più avanti, perché hanno già ottenuto l’appoggio del ministro francese all’Innovazione e all’Economia digitale, Fleur Pellerin. Italiani e francesi si coordineranno con i tedeschi. In Germania la Federazione dedli editori di quotidiani e l’Associazione degli editori di periodici hanno lanciato un’iniziativa giudiziaria contro Google, ottenendo l’appoggio del cancelliere Angela Merkel.
Questa “guerra” per il diritto d’autore sta assumendo contorni globali. In Gran Bretagna la Newspaper licensing agency già chiede somme agli aggregatori di notizie online. Ed è notizia di questi giorni che gli editori di quotidiani brasiliani hanno deciso di abbandonare Google. A qualcuno farà ridere il fatto che siano brasiliani, ma Google non ride: si tratta di decine di milioni di lettori/utenti.
M’interessa perché: 1) si ristabilisce il principio che l’informazione industriale è un prodotto di processi lavorativi e sudor della fronte, da tutelare e remunerare; 2) sta prendendo forma uno scenario in cui internet viene scavalcato e si accede direttamente a siti e piattaforme digitali che hanno notizie, con l’url o attraverso applicazioni; 3) in altre parole, l’accesso potrebbe in futuro diventare controllato e sottoposto a condizioni, non più libero; 4) non a caso l’articolo di Lettera43 riporta un’indiscrezione, secondo cui Repubblica e Corriere della Sera vorrebbero far pagare dal gennaio 2013 l’accesso ai loro siti di new, con un sistema paywall forse simile al New York Times.
Il punto: dare una prospettiva di sopravvivenza e, si spera, sviluppo all’industria delle notizie, anche con la modernizzazione e innovazione di contenuti, modalità di fruizione, tecnologie.
Fieg: ditirro d’autore e aggregatori di news su internet
Lettera43: news online a pagamento
Wall Street Italia: Google supera la Rai nella pubblicità