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La Guerra Della Pubblicità

La pubblicità su internet vale poco. E sfugge a misurazioni affidabili. Tra frodi e zone grigie

C’è questo interessante articoletto di Quartz sulle mosse di Google e un recente acquisto fatto dal gigante di Internet. Nei giorni scorsi ha comprato una società, Spider.io, che si occupa di pubblicità.

E’ l’occasione per capire meglio la guerra della pubblicità. E in che modo può riguardare la carta stampata.

Si parte dalla notizia, molto commentata, che metà della pubblicità su Internet non viene vista da nessuno. La parte rimanente, in parte non viene vista da esseri umani, ma da macchine.

Ci sono computer che guardano miliardi di pubblicità (come ha rivelato un anno fa proprio Spider.io).

Da qui la scarsa affidabilità delle misurazioni su Internet. Una mancanza di credibilità che comprime verso il basso i prezzi, mettendo in difficoltà chiunque cerchi di far ricavi nel digitale, editori compresi.

Anche per questo, si spiega, il brand advertising, cioè la pubblicità di maggior qualità e valore (contrapposta ai piccoli annunci), rimane ancora in tv e, in misura non disprezzabile, sulla carta stampata.

In Italia il 50% della pubblicità va ancora alla tv, il 20% ai giornali, il 17% (stime) a Internet.

Invece negli Usa la situazione è questa.

Pubblicità negli Stati Uniti

 

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Facebook e i Periodici Italiani

I siti dei settimanali: il numero di utenti, il ruolo dei social media, l’attaccamento e fidelizzazione dei lettori. C’è ancora molta strada da percorrere

Segnalo un post sulle performance online dei settimanali italiani scritto da Pier Luca Santoro, l’autore del sito su comunicazione ed editoria Il Giornalaio.
Santoro risponde a domande di grande interesse sul seguito online delle testate periodiche.
Attraverso uno studio fatto con uno strumento per specialisti, è possibile vedere non solo quanti utenti unici ha ciascun sito. Ma, sopratutto, capire alcune caratteristiche dei visitatori. E intuire il loro livello di soddisfazione.

Vedremo quanti lettori arrivano sul sito del giornale dai social network, per esempio. A questo riguardo, viene fuori che nei settimanali, così come nei quotidiani, pochissimi visitatori sul totale vengono “rastrellati” su Facebook e Twitter e dirottati al sito, come dovrebbe essere interesse degli editori. La parte del leone, comunque, spetta a Facebook.

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Se il digitale inizia a (ri)pagare – Lo scenario dei media secondo l’Economist

Da più parti ripreso l’articolo dell’Economist «Counting the Change», «Misurando il cambiamento».

Descrive le trasformazioni subite dai media e dall’industria dell’intrattenimento nel passaggio al digitale. Riguarda i giornali, i libri, il cinema, la musica, la televisione.

Aiuta a comprendere che i cambiamenti della stampa s’inseriscono in un quadro più grande. E avere presente il contesto serve, come sempre, a dare un senso alle cose. A non smarrirci. A non subire a occhi chiusi gli eventi e, dunque, ad avere meno paura.

L’articolo è un fermo immagine, perché la trasformazione è così radicale che è difficile dire quale direzione, velocità, impeto prenderà anche solo tra pochi mesi.

Mi sembra un buon riferimento per la seconda metà del 2013. E il settimanale economico-finanziario britannico pone la questione che, giudicando dal mio piccolo punto di vista, può guidarmi negli avvenimenti, notizie, problemi dei prossimi mesi.

Ma per creare la cornice bisogna lavorare per sottrazione. Dobbiamo ridurre, sfrondare, eliminare, fare a meno di tanti, troppi numeri, dati, termini tecnici, gergo economico, manageriale, da esperti. (Esperti che in questo blog non sono presenti, non scrivono, non intervengono).

Dunque l’Economist prova a dirci dove siamo arrivati.

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Per competere con Google non cercare di imitarlo, editore!

Come gli editori possono competere con Google e le grandi compagnie digitali non giornalistiche nella caccia alla pubblicità online? Un articolo uscito nel sito di Nieman Lab racconta le strategie di quattro realtà giornalistiche americane che si sono mostrate innovative.

Quel che mi colpisce della indagine di Ken Doctor, esperto di editoria di cui questo blog si è già occupato, è la messa a fuoco di un punto: gli editori di prodotti giornalistici non devono inseguire Google e le altre compagnie digitali sulla strada dei contenuti a basso prezzo. Da sempre la stampa propone contenuti premium, rivolti a fasce demografiche e sociali bene individuate, dunque appetibili per le aziende. Questo va fatto anche nel digitale. Altrimenti si è destinati a soccombere.

Sono concetti che aprono gli occhi a chi, come me, non s’intende di new media, lavora nella carta stampata e non riceve una formazione per capire le logiche del digitale.

Per dire… Facebook, che negli Usa raccoglie un quarto della pubblicità nel digitale, vende lo spazio agli inserzionisti a 80 centesimi di dollaro ogni mille impressioni, mille pagine viste. Ma a questi prezzi nessun editore può sopravvivere, perché produrre contenuti giornalistici costa molto, e non ci si sta dentro. Questo ormai mi è chiaro. Gli editori, dice Ken Doctor, vogliono, devono guadagnare da 20 a 50 volte di più.

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Qual è la forza dei giornali nel digitale – I conti del primo trimestre 2013 dei quotidiani Usa

C’è una frase che infonde ottimismo in un articolo piuttosto negativo sulla sfida tra giornali e digitale. Si parla di come sono andati i quotidiani americani nel primo trimestre del 2013. Non bene, naturalmente, perdono pubblicità anche nell’online. E il New York Times è in affanno. Ma ci sono potenzialità inesplorate.

Infatti i primi tre mesi del 2013 si sono chiusi per il quotidiano più famoso del mondo con una perdita del 4% nella raccolta pubblicitaria nel digitale. La raccolta complessiva del New York Times, carta stampata inclusa, va indietro dell’11%, a 191 milioni di dollari. Una doccia fredda per il giornale che più ha innovato il prodotto. E che aveva chiuso il 2012 con una crescita dell’1,9%, la prima inversione di tendenza dal 2006.

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L’Era di Google: dove e quanti soldi investe la pubblicità sui media digitali

Dove e quanto la pubblicità investe nei media digitali. Ovvero, l’Era di Google: presto il gigante di Mountain View supererà News Corp e diventerà il primo media per raccolta pubblicitaria nel mondo.

Sir Martin Sorrell, Ceo di una delle tre maggiori società internazionali di pubblicità, la WPP, ha spiegato mercoledì 24 aprile alla FT Digital Media Conference di Londra dove e quanto investe in pubblicità. Dove viene speso il budget di cui dispone.

Sorrell ha precisato che il digitale rappresenta il 34% degli investimenti della società da lui fondata. Pari a 72 miliardi di dollari.

«Da zero a più di un terzo degli investimenti in dieci anni: è l’Età di Google» ha commentato il Ceo di WPP.

Ma dove vanno i soldi? Vediamo i dati sugli investimenti di WPP nell’ultimo trimestre.

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L’uomo che vuole tagliare la pubblicità sulla carta stampata

Sir Martin Sorrell è una persona piuttosto influente: capo esecutivo (Ceo, in gergo) di WPP, una delle tre maggiori società di pubblicità e pubbliche relazioni a livello mondiale, quando parla gli altri ascoltano con attenzione. E magari si adeguano.

Il Guardian riporta alcune affermazioni del capo di WPP fatte mercoledì 24 aprile a FT Digital Media Conference di Londra.

Sorrell dice che gli investitori pubblicitari dovrebbero prendere seriamente in considerazione l’idea di tagliare gli investimenti nella carta stampata. E ha accusato Google, Facebook e Twitter di essere degli editori, delle media company, mascherate da società di tecnologia.

Considerazione di Sorrell n.1. C’è una grande discrepanza tra le somme investite in quotidiani e periodici e il tempo che la gente spende su questi media. Troppi investimenti in rapporto al tempo.

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«Come i periodici digitali hanno ucciso i blog»

Partendo dalla notizia di alcuni cambiamenti in Google (l’eliminazione dell’RSS Reader) un blog americano, io9, spiega come le versioni digitali dei giornali periodici stiano uccidendo un modo di leggere le notizie che sembrava essersi affermato con internet. E come vi sia un ritorno al modo tradizionale di accedere ai contenuti informativi: comprare e sfogliare particolari “contenitori” noti a tutti con il nome di: giornali.

Le considerazioni contenute nel post «Magazines have finally killed blogs – but in a way you never expected», «I periodici hanno ucciso i blog ma in un modo che non vi sareste aspettati», s’inseriscono con naturalezza nelle riflessioni di questo sito sulle carattersitiche che rendono i periodici unici, e le arricchiscono.

Lo spunto è la notizia che Google ha eliminato l’RSS Reader, uno strumento che potete vedere anche nella parte bassa di questa pagina, e in quasi tutti i siti web, un servizio che consente di ricevere nelle proprie e-mail una sintesi delle notizie e dei post usciti in uno o più siti e blog. E’ come un bollettino che viene inviato a casa vostra.

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2) La pubblicità, vera incognita per il futuro dei giornali

Seconda puntata su giornali e pubblicità nel digitale. Si parla del mobile. I tablet e gli smartphone hanno creato uno spazio di sviluppo per i periodici. Ma la lentezza degli editori rischia di avvantaggiare le multinazionali tech. Google, Facebook, YouTube stanno investendo massicciamente nella pubblicità associata ai contenuti per questi apparecchi. La strada per le riviste è in salita.

Riprendo la riflessione iniziata lunedì con un post gemello. Lo spunto è offerto dal rapporto del Project for Excellence in Journalism del Pew Research Center di Washington DC intitolato: The State of the News Media 2013.

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La pubblicità, vera incognita per il futuro dei giornali

Solo una piccola parte della pubblicità pagata su internet affluisce alle testate giornalistiche. Tutto il resto è bottino spartito tra i giganti della tecnologia: Google, Facebook, YouTube. Per questo il futuro di quotidiani e periodici è sotto scacco. È quanto emerge da The State of the News Media 2013, il rapporto del Project for Excellence in Journalism dell’autorevole Pew Research Center di Washinghton Dc.

Scrivo questo post pensando a un giornalista italiano decisamente conosciuto che un giorno, ai tempi delle mie prime esperienze in redazione, mi ha fatto questa domanda, un po’ retorica: sai dirmi qual è il limite più grande alla libertà dei giornalisti? Vista l’aria che tirava, veniva spontaneo rispondere che l’ostacolo maggiore è la mancanza di democrazia. «No, il limite più grande sono i soldi. Se non hai le risorse economiche per andare là dove avvengono i fatti, Palermo, Tunisi, New York, non sei un giornalista che possa fare bene il suo lavoro».

Ma da dove provengono le risorse per la maggior parte dei giornali? (Segue noitizia).

È il problema più grande per il futuro dei giornali, la vera incognita sulla strada del passaggio al digitale dei quotidiani e delle riviste di tutto il mondo. Oltre alle difficoltà di convincere i lettori a pagare per i contenuti giornalistici digitali, dopo anni di informazione gratuita nel web attraverso gli aggregatori di notizie come Google News, la strada viene sbarrata dalla difficoltà di raccogliere la pubblicità.

Il Pew Research Center spiega che le cinque maggiori compagnie presenti nel mondo digitale, nessuna delle quali è un editore, vale a dire Google, Yahoo, Facebook, Microsoft e AOL, incassano nel 2012 il 64% delle inserzioni pubblicitarie del web. La stessa percentuale del 2011. Gli editori hanno un ruolo minore, anzi, marginale. Uno scenario che verrà confermato nell’anno in corso.

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Come finire in cima alle news di Google

In altre parole sto parlando dell’algoritmo, della formula con cui Google News sceglie quali siti e notizie valorizzare, rispetto a tutto il resto. O, forse è più interessante, a cosa (un blogger deve) prestare attenzione se si vuole finire nella parte alta delle ricerche fatte con Google. Il tema è dunque il posizionamento.

La settimana scorsa, spiega Frederic Filloux sul Guardian, il gigante di Internet ha aggiornato il documento che descrive le 13 metriche con cui il motore di ricerca fa la classifica delle news.

Vi invito a leggere l’articolo. Non voglio copiarlo, faccio il mediatore e mi limito a riportare l’elenco delle 13 metriche: numero di articoli pubblicati; lunghezza degli articoli; grado di copertura di determinati argomenti; la velocità nell’aggiornamento; il numero di volte in cui si viene citati; la reputazione, stando al giudizio di fonti autorevoli; i dati di traffico; le dimensioni della redazione; originalità e numero delle fonti citate; l’ampiezza degli argomenti trattati; la dimensione internazionale di un sito/blog; la correttezza grammaticale e varietà del lessico.

Buona lettura.

The Guardian: la formula segreta di Google News

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Smartphone, pubblicità e i problemi di editori e Google

Serio e ampio articolo dell’Atlantic sulle incognite della pubblicità sugli smartphone: la nuova frontiera della pubblicità.

Un americano su due possiede uno smartphone, in Italia ne sono stati venduti oltre 20 milioni: insieme ai tablet, i cellulari intelligenti saranno il supporto su cui leggere e per cui ridisegnare contenuti informativi, news, giornali, periodici. Ma il passaggio digitale, come sappiamo, risulta problematico quando si parla di ricavi per le società, a partire dagli editori.

Perfino due giganti del digitale, Google e Facebook, temono impatti negativi e potenzialmente catastrofici per il loro business.

Il punto è questo: gli smartphone, insieme ai tablet, sono destinati a diventare il principale punto di accesso per informazione, news, servizi vari. Ma la raccolta di pubblicità sul mobile presenta problemi ancora irrisolti. Non piace alla gente perché è fastidiosa, invadente, poco leggibile. Le dimensioni dello schermo di un cellulare intelligente sono davvero ridotte e inserzioni e spot, per farsi notare, devono essere aggressivi. Ma proprio per questo la gente non li ama. E le aziende non sono disposte a pagare molto per la pubblicità via mobile. A questo si aggiunge la difficoltà di misurare il rendimento e il livello di interazione dell’utente, rilevazioni più complicate rispetto alla fruizione sul computer di casa.

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La prima donna Direttore periodici di Time Inc e lo sviluppo digitale

La prima donna a capo di tutti i periodici di Time Inc., Martha Nelson, affiancherà l’amministratore delegato Laura Lang: «Credo nella forza della stampa ma dobbiamo muoverci verso una maggiore integrazione della carta con l’attività digitale».

Per la prima volta in 90 anni di storia una donna diventa “Direttore generale” (EIC: editor in chief) della maggiore casa editrice di periodici negli Stati Uniti.

Martha Nelson è stata direttore di InStyle, che ha lanciato 20 anni fa («il lancio aveva una tabella di marcia disumana, abbiamo dormito in redazione»), ora dovrà supervisionare tutte le testate di Time Inc., dal newsmagazine Time a People, Sports Illustrated, InStyle, Fortune, 17 in tutto.

L’amministratore delegato Laura Lang ha commentato: «Martha è una creativa e ci guiderà nel passaggio verso una strategia multi-piattaforma, grazie alla sua conoscenza del consumatore potremo condurre con successo la transizione».

Martha Nelson ha detto una serie di cose che riporto perché aiutano a capire cosa sta succedendo nel mondo dei periodici: in Italia c’è parsimonia nell’uso delle parole da parte di chi amministra le case editrici.

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In Francia si lavora a una legge contro Google News

La campagna degli editori contro Google entra nel vivo.

Come riportato ieri su Futuro dei Periodici (Editori contro google), è stata annunciata un’azione congiuta di editori italiani e francesi per far pagare diritti d’autore a Google e agli aggregatori di news su Interner.

Il mese scorso in Francia le società che pubblicano quotidiani e periodici hanno chiesto un provvedimento legislativo a tutela dei loro prodotti. Google aveva risposto che questo intervento «danneggerebbe Internet, i navigatori e i siti di notizie che beneficiano di un traffico sostanzioso» (grazie a Google).

Anche in Germania il Parlamento sta lavorando nella direzione di far pagare i diritti agli aggregatori di notizie.

Oggi il presidente esecutivo di Google Francia, Eric Schmidt, ha incontrato il presidente francese, Francois Hollande, per discutere la proposta di legge che costringerebbe la compagnia di Mountain View a pagare per i contenuti appartenenti ai media transalpini che appaiono sulla pagina dei risultati di ricerca.

E’ chiaro che qualcosa si sta muovendo. La situazione per il giornalismo professionale è insostenibile. Più cala la pubblicità sui quotidiani e i periodici, più questa aumenta su internet. E l’abitudine a consumare news gratuitamente, disincentiva la gente dal sottoscrivere abbonamenti con le testate online. Le news sono diventate commodity, prodotti che si possono ottenere senza pagar nulla e da fornitori diversi ed equivalenti.

L’articolo de la Stampa descrive quel che era atteso in giornata.

M’interessa perché: 1) è iniziata la guerra dei contenuti giornalistici online e su app; 2) se gli editori riuscissero a vincere, si aprirebbe la strada di credibili modelli di business nel digitale; 3) è un conflitto nel quale è in gioco anche il futuro di un internet aperto e libero come l’abbiamo conosciuto fino a oggi.

Il punto: 1) come mi disse 16 anni fa un famoso inviato diventato poi direttore, la principale limitazione al giornalismo di qualità non è il potere politico ma la mancanza di mezzi economici. Senza soldi e compenso un giornalista non può realizzare un buon lavoro. Ci dovremmo accontentare di una melassa di notizie copiate, scritte male, non verificate.

La Stampa: editori francesi contro Google

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Gli editori italiani vogliono far pagare Google

Ovvero, ritornare al concetto che le notizie sui giornali sono frutto del lavoro di qualcuno e, in quanto tali, prodotti che vanno pagati da chi li consuma. Come un romanzo. Come la musica registrata. Al servizio pubblico pensa, o dovrebbe pensare, la Rai. Nelle biblioteche, luoghi bellissimi dove vorrei passare le giornate, si può leggere gratuitamente, e anche nei bar, pagando un caffè per sfogliare i giornali e accedere alle notizie intese come commodity, «ovvero un bene che può essere fruito, senza differenze sostanziali, da più fonti informative» (news come commodity).

E’ sempre stato così (con l’eccezione delle tv generaliste e della radio). Ma internet ha distrutto questa semplice verità

Grazie ai motiri di ricerca possiamo accedere alle notizie dei giornali senza pagar nulla. Possiamo leggere estratti dei principali articoli pubblicati online dai quotidiani. I motori di ricerca, Google in testa, aggregano notizie e traggono enormi profitti dal lavoro di editori e giornalisti, grazie alla pubblicità.

In Italia Google ha superato quest’anno in settembre la Rai nella raccolta pubblicitaria. Già due anni fa internet, nel nostro paese, faceva ricavi pubblicitari equivalenti a quelli dell’intero settore dei periodici, e la metà veniva intascata da Google. Se Fabio Vaccarono ha lasciato lo scorso luglio Manzoni advertising, concessionaria di pubblicità de L’Espresso, per diventare country manager di Google Italia, un motivo c’è. Ed il motivo è che il gigante dei motori di ricerca vuole crescere ancora e raggiungere in pochi anni un fatturato pubblicitario equivalente a quello di Mediaset. In altre parole, Google vuole diventare Mediaset, quel che il principale gruppo televisivo privato italiano è stato nei passati 30 anni.

Non deve quindi stupire (arriviamo alla notizia di questo post, ci arriviamo dopo una lunga introduzione, trasgredendo alla regola numero uno del giornalismo: notizia nell’attacco) la richiesta avanzata in questi giorni dalla Fieg, la Federazione italiana editori giornali, che chiede una legge per tutelare il diritto d’autore verso Google, gli aggregatori di news online e internet nel suo complesso.

Gli editori italiani della Fieg annunciano che la loro azione averrà di concerto con gli editori francesi, i quali, bisogna dire, sono più avanti, perché hanno già ottenuto l’appoggio del ministro francese all’Innovazione e all’Economia digitale, Fleur Pellerin. Italiani e francesi si coordineranno con i tedeschi. In Germania la Federazione dedli editori di quotidiani e l’Associazione degli editori di periodici hanno lanciato un’iniziativa giudiziaria contro Google, ottenendo l’appoggio del cancelliere Angela Merkel.

Questa “guerra” per il diritto d’autore sta assumendo contorni globali. In Gran Bretagna la Newspaper licensing agency già chiede somme agli aggregatori di notizie online. Ed è notizia di questi giorni che gli editori di quotidiani brasiliani hanno deciso di abbandonare Google. A qualcuno farà ridere il fatto che siano brasiliani, ma Google non ride: si tratta di decine di milioni di lettori/utenti.

M’interessa perché: 1) si ristabilisce il principio che l’informazione industriale è un prodotto di processi lavorativi e sudor della fronte, da tutelare e remunerare; 2) sta prendendo forma uno scenario in cui internet viene scavalcato e si accede direttamente a siti e piattaforme digitali che hanno notizie, con l’url o attraverso applicazioni; 3) in altre parole, l’accesso potrebbe in futuro diventare controllato e sottoposto a condizioni, non più libero; 4) non a caso l’articolo di Lettera43 riporta un’indiscrezione, secondo cui Repubblica e Corriere della Sera vorrebbero far pagare dal gennaio 2013 l’accesso ai loro siti di new, con un sistema paywall forse simile al New York Times.

Il punto: dare una prospettiva di sopravvivenza e, si spera, sviluppo all’industria delle notizie, anche con la modernizzazione e innovazione di contenuti, modalità di fruizione, tecnologie.

Fieg: ditirro d’autore e aggregatori di news su internet

Lettera43: news online a pagamento

Wall Street Italia: Google supera la Rai nella pubblicità

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