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Periodici, Internet E “Verticali” (Sui Mag Di First Look Media)

Rivisti e ripensati. I periodici trovano una nuova vita nella Rete. Perché c’è ancora bisogno di un giornalismo specializzato, accurato, pieno di entusiasmo. Che parli delle passioni delle persone

Molto si è parlato del lancio di magazine digitali da parte di un editore digitale americano, First Look Media.

Il 10 febbraio è uscito il primo giornale di quelli preannunciati, The Intercept. E la discussione si è spostata sul ruolo delle “firme”, dei giornalisti che ci mettono la faccia su Internet.

Ma c’è chi si è chiesto se questi siti possano davvero essere considerati i discendenti dei magazine nel digitale.

Una docente americana che si occupa di mass media ha approfondito l’argomento, riprendendo le parole dell’executive editor di First Look Media. E’ una riflessione sui “verticali”, i rami dei portali giornalistici che approfondiscono un dato argomento. Lo abbiamo sentito ripetere di recente anche in Italia, quando Rcs Mediagroup ha messo mano alla ridefinizione del sito del Corriere della Sera collegandolo alle testate periodiche e agli allegati, vecchi e nuovi.

Date un’occhiata all’articolo. Si dice che i verticali ricreano in Internet quel rapporto speciale che i periodici intrattengono con i loro lettori. Ci sono voci di giornalisti distinte, uniche, riconoscibili, che emergono nei siti specializzati e non sprofondano nell’uniformità dei portale. Con i giornalisti delle riviste si crea un rapporto di fiducia, fondato sull’entusiasmo per un soggetto, la conoscenza approfondita, l’esperienza, lo scambio.

«Magazines were doing a lot of what the Internet does, before the Internet was around. If you wanted deep expertise, if you wanted to be around people who shared a passion, you’d go to magazines… The idea that there’s a publication that exists for multiple devices and multiple platforms, with a strong editorial vision and voice, is really reminiscent of what magazines do».

«I periodici facevano molto di quel che Internet offre, prima che Internet nascesse. Se volevi competenza, se volevi sentire persone che condividevano le tue passioni, ti compravi un periodico. .. L’idea di una pubblicazione che esiste su molti device e piattaforme, con una voce e una linea editoriale forti, è davvero un’eredità di quel che facevano i periodici».

E continuano a fare.

Futuro dei Periodici

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29 Giornali Che Hanno Cambiato Sede

Quotidiani che cambiano sede, che traslocano, che lasciano palazzi storici. O che danno in affitto il luogo dove si lavora. Negli Stati Uniti se ne contano 29

SUCCEDE NEGLI USA Come in un racconto di Thomas Pynchon, la realtà presenta, in contesti diversi, singolari coincidenze che lasciano disorientati. Ma c’è una ragione: i cambiamenti cui assistiamo sono universali. Un articolo uscito sul sito di Nieman Lab (legato all’università di Harvard: si pone l’obiettivo di aiutare i giornalisti a capire il loro futuro nell’epoca di Internet), scritto da una docente della School of Media and Public Affairs alla George Washington University, racconta alcune storie emblematiche.

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The Turning Point/ Consigli per la Riconversione Digitale dei Giornalisti

Il punto di svolta. Dal Financial Times al Corriere della Sera, il mondo del giornalismo è al Turning Point. Ai redattori si chiede di diventare giornalisti digitali. Il compito principale è lavorare su articoli e racconti che possano essere diffusi su tutte le piattaforme, non solo sulla carta. Ma come convertire le redazioni ai nuovi media?

RICONVERSIONE POSSIBILE Consigli pratici e di metodo vengono dati nel blog di Mario Garcia, uno dei più noti esperti di grafica giornalistica e media. Sono elencati in un post in cui si riferiscono le novità emerse alla Expo dell’industria giornalistica a Berlino, evento organizzato da Wan Ifra (è l’associazione mondiale dei quotidiani e media), evento puntualmente coperto da Futuro dei Periodici.

A Garcia hanno chiesto come deve avvenire la riconversione digitale. Lui risponde che:

«È più facile imparare a usare le nuove tecnologie che cambiare gli abiti mentali. Ma si tratta di obiettivi che si possono raggiungere. Senza ombra di dubbio (“it’s definitely something that can be accomplished”)». Con buona pace di quella fazione radicale che nel giornalismo italiano ha teorizzato, chissà perché, che questa operazione è impossibile.
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Storie di giornali e palazzi – Lo sciopero al Corriere della Sera

Ripubblico senza cambiamenti un post del 18 maggio che racconta il trasloco del Miami Herald: anche in quel caso il palazzo di un giornale è diventato il simbolo della crisi. Come la sede di Via Solferino per il Corriere della Sera, quotidiano che oggi non sarà in edicola per uno sciopero contro la possibile vendita dell’edificio. Storie diverse con qualche punto in comune.

 

Il palazzo del Miami Herald era diventato il simbolo del crepuscolo del giornalismo nell’era del digitale. Due giorni fa il quotidiano americano ha cambiato sede, mettendo fine a un’agonia raccontata anche sui media italiani. Ma la tendenza al trasloco non è solo americana. Come raccontano articoli di questi mesi.

Alla fine il Miami Herald, storico quotidiano della Florida, con mille dipendenti, ha traslocato. Ecco una foto della cerimonia d’addio, dopo la riunione di redazione delle 3 del pomeriggio, il 16 maggio.

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Il progressivo impoverimento del giornale è stato oggetto di articoli in tutto il mondo. La sede aveva una bellissima vista sul mare. Ma per tirar su qualche soldo un enorme cartellone pubblicitario era stato appeso alla facciata principale, oscurando le finestre di parte della redazione, proprio quelle che davano verso l’oceano. L’episodio è stato narrato in apertura di un importante rapporto del 2012 sulla transizione dei media, The Story so Far, della Columbia University. Non era sfuggito un diabolico dettaglio: la pubblicità che copriva il palazzo era di iPad di Apple, simbolo del digitale che avanza e manda in crisi i media tradizionali.

Miami Herald headquarters

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Cresce la pubblicità nelle edizioni dei giornali per iPad – (E il mal di web degli inserzionisti italiani)

Cresce del 24% la raccolta di pubblicità nelle edizioni per iPad delle riviste statunitensi. Non è una notizia per esperti ma un piccolo segnale sui cambiamenti in atto nell’editoria e nella comunicazione delle aziende. Perché, senza questa fonte di ricavo, le inserzioni, il destino della maggior parte dei magazine è segnato.

Si dice che fare un’edizione per iPad (o tablet) del giornale è costoso: vero. Si dice che la pubblicità non se la sente di investire soldi in annunci multimediali: vero.

Ma ieri ho letto nel sito della rivista americana Adage questa notizia che ha il sapore della annotazione cronachistica che rivela un movimento lento ma profondo degli eventi.
Negli Stati Uniti la raccolta pubblicitaria sulle edizioni per iPad delle riviste è in crescita. Una crescita sensibile, significativa, dal punto di vista di chi scruta l’orizzonte in attesa del refolo di vento che rimetta in moto la navigazione dell’editoria in crisi.
Nel primo trimestre del 2013 il numero totale di inserzioni pubblicitarie sulle edizioni per iPad dei magazine americani ha visto una crescita del 23,6% rispetto al 2012 (secondo quanto riferisce un report di Kantar Media e del Publisher Information Bureau). Il rapporto fa il monitoraggio di 58 riviste. Vien fuori che le pagine di pubblicità sulle edizioni cartacee delle stesse sono state, nel periodo di cui si diceva, 10.707: più o meno come nel 2012. Ma le pagine sull’edizione per iPad sono passate da 4.824 a 5.961. Sommando carta e digitale, la crescita è del 7,5%.

Nell’articolo si rivela (curiosità!) il prezzo di una pagina di pubblicità su Bloomberg Businessweek (85 mila dollari nell’edizione per iPad, 161 mila in quella di carta). E c’è la conferma che il mondo delle aziende è al bivio riguardo alla possibilità di investire in comunicazione multimediale, “arricchita”, sulle edizioni digitali delle riviste.

One impediment for iPad ads is cost. There are more production costs required for interactivity, and some publishers, including Condé Nast and Meredith, have charged advertisers for interactive elements.

Un ostacolo sull’iPad sono i costi. Ci sono costi di produzione maggiori dovuti all’interattività e alcuni editori, inclusi Condé Nast e Meredith, hanno scaricato sugli inserzionisti il prezzo degli elementi interattivi.

Tutto questo mi ricorda un pezzo su la Lettura, inserto domenicale di cultura del Corriere della Sera, in cui si raccontava dell’immobilismo e dei profondi cambiamenti di mentalità nel mondo della comunicazione pubblicitaria in Italia. Non dipende solo dagli editori se i giornali non fanno investimenti e sperimentazione! Anche la pubblicità è ferma. L’intero sistema è in stand-by, si è spettatori, si tagliano i costi, manca la convinzione di poter investire in modo sensato. In Italia. Negli Usa, invece…

Adage: cresce la pubblicità nelle edizioni per iPad dei giornali.

Advertising Age

Rivista sul mondo della pubblicità negli Stati Uniti.

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Il power brand, Rcs Mediagroup e altri stati di crisi nei periodici

Non è facile discutere dei periodici di Rcs e di altri giornali in crisi senza urtare la sensibilità di chi ci lavora.

Provo a fare una riflessione limitata, per mettere in luce qualche aspetto che penso valga per tutti.

Non mi soffermo sulle situazioni specifiche, come le ragioni che in Rcs hanno portato alla decisione di cedere o vendere dieci testate, limitandomi a notare che comunicare da subito l’intenzione di vendere o chiudere è il miglior strumento per bruciare i ponti: un giornale perde all’istante pubblicità.

Lo abbiamo sentito:

Rizzoli intende rinunciare a una decina di testate, tra cui A – Anna, Bravacasa, Max, Novella 2000.

Continuerà le pubblicazioni, tra gli altri, di Oggi e Amica.

Rizzoli, soprattutto, è un editore che ha la proprietà di due quotidiani leader, Il Corriere dela Sera e la Gazzetta dello Sport.

Alla luce di questo assetto è possibile provare a capire il senso del piano dell’Ad Pietro Scott Jovane, nella parte che riguarda i periodici.

Gli editori devono investire nel sostegno dei giornali e nello sviluppo del digitale, ma le risorse a disposizione sono limitate: la tentazione di ridurre il numero di giornali per concentrare gli investimenti è fortissima.

C’è poi una parola chiave: powerbrand. Nella dimensione digitale i marchi più forti prendono tutta la posta. Chi arriva, non dico secondo, ma terzo, ha perso. Il lettore cerca la voce più conosciuta. Il divario tra i titoli più forti e quelli di media caratura, di conseguenza, si allarga, rispetto al mondo della carta stampata. Per dire: La Stampa, in edicola, ha retto per anni alla potenza di fuoco di Corriere e Repubblica. Nel digitale, invece, il quotidiano di Torino rischia di perdere terreno e di essere più vicino, per risultati, a Messaggero e Giornale. In altre parole, un editore è portato a investire sui marchi forti, sacrificando le testate che non sono leader nel loro segmento di mercato.

Infine, la crisi ha lasciato il segno. Nella pubblicità è cambiata la mappa degli investimenti e l’arredamento, per dire, non è un settore che possa più alimentare il numero di riviste che si sono viste fino a oggi in edicola. Un discorso simile vale per la pubblicità e le riviste di turismo (ne ho parlato in post su Condé Nast Traveller e sulla crisi in Mondadori). L’affermarsi invece dei media digitali ha tagliato le gambe ai giornali di gossip. Qualsiasi notizia in esclusiva delle riviste patinate viene immediatamente ripresa e consumata su Internet. Non c’è match e bisogna inventarsi un’altra formula, se ci si riesce.

Il Punto: cosa c’è nella testa degli editori.

Futuro dei Periodici

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Rcs, nessuna retromarcia sulla cessione di dieci periodici

La notizia del giorno è che il patto di sindacato di RCS Mediagroup probabilmente diluirà, ridurrà la propria quota di capitale ordinario. Leggete l’articolo del Sole 24 Ore riportato alla fine di questo post.
A per me è una notizia anche la mancanza di segnali che la società voglia fare dietrofront sulla cessione di dieci riviste, messe sul mercato, per cui si è ipotizzata, in alternativa, la chiusura.
Nell’articolo si dice infatti che sembra avvicinarsi la vendita del pacchetto di periodici al gruppo Bernardini De Pace.
A livello sindacale ci sono prese di posizioni ferme e molto responsabili (sempre sintetizzate nell’articolo). Anche i periodici di RCS, non solo il quotidiano del Gruppo, il Corriere della Sera, sono un pezzo di storia del giornalismo italiano. Molti colleghi sembrano dimenticarlo, con dimostrazione del consueto snobismo verso le riviste e i loro giornalisti.

Sole 24 Ore: RCS non cambia sulla cessione dei periodici

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La solitudine dei giornalisti dei periodici Rizzoli

Penso ai giornalisti dei periodici di RCS e già sento un’obiezione vibrare nell’aria: ma perché non pensi ai fatti tuoi?

Invece penso ai giornalisti delle 10 testate che uno dei maggiori editori di periodici italiani (ancora per poco) ha deciso di mettere in vendita o, in alternativa, di chiudere. Le ultime notizie dicono che la cessione sarebbe vicina e potrebbe essere decisa già domenica.

Sui loro colleghi del Corriere della Sera, dico colleghi perché sono dipendenti della stessa società, RCS Mediagroup, molto si scrive, molto si può leggere.

Lo capisco: sono giornalisti in forza al principale quotidiano del Paese, indispensabile alla completezza dell’informazione degli italiani, indispensabile alla nostra democrazia. La sede di Via Solferino, a Milano, è un monumento nazionale, le sue stanze sono state definite il Pantheon del giornalismo italiano. Quanta invidia suscitano.

Ma il pensiero torna ai loro colleghi dei periodici, di cui poco o niente si dice (magari è una cosa voluta da loro stessi, di qui il prevedibile invito a non impicciassi dei fatti altrui),dimenticato da tutti il loro “Pantheon” (all’Europeo hanno scritto Camilla Cederna, Oriana Fallaci, Giorgio Bocca), ma costretti a fronteggiare una situazione ben più preoccupante.

Per loro il rischio non consiste nel pensionamento anticipato di parte della redazione, non è il trasferimento dalla sede storica a un palazzo moderno di periferia.

I giornalisti dei periodici e le loro testate potrebbero essere ceduti a un altro, piccolo editore. Non è la perdita di posti di lavoro, sia chiaro. Ma c’è il timore che questo spettro possa materializzarsi tra non molto. Sicuramente si tratterebbe di un trauma maggiore del trasferimento del Pantheon del giornalismo italiano in un altro palazzo (rimasto semi-vuoto), vicenda che suscitare così forti emozioni nei vecchi del mestiere. E sui giornali di carta e digitali.

Quando un quotidiano è in pericolo di chiusura, o rischia un ridimensionamento, si rispolvera immancabilmente l’argomento della difesa del pluralismo e della completezza dell’informazione. Insomma, bisogna difende chi ci lavora perché è nell’interesse dei lettori. Nell’interesse generale.

Quando sulla graticola finiscono i giornalisti di altri settori, il tono è meno accorato.

Ma pensiamo anche ai nostri interessi, cari colleghi, e non vergognamoci di parlarne, via! Le pensioni e il welfare della categoria stanno in piedi perché ci sono i giornalisti dei quotidiani, dei periodici, della tv, delle radio, del digitale, degli uffici stampa. Se ci tenete ad avere una pensione, ad avere gli ammortizzatori sociali per il prossimo giro di valzer, ad avere un’assistenza sanitaria di categoria, dovete avere a cuore le sorti di tutti. Senza distinzioni.

Milano Finanza: vicina cessione 10 periodici Rcs Mediagroup.

Futuro dei Periodici

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Lo studente che non vuole più sprecare tempo su Facebook

Frasi celebri.

«Per scorrere tutti i post della giornata con una certa velocità, ci mettevo circa un’ora, per assimilare informazioni totalmente inutili.

Insomma, tempo buttato. Questo tipo di attività è uno dei più diffusi tra gli utenti. Nel corso degli ultimi quattro anni, dal giorno della mia iscrizione, le mie abitudini quotidiane sono cambiate radicalmente e spesso ne ha risentito lo studio: nel primo pomeriggio, Facebook ha sostituito un bel film e la sera, prima di andare a dormire, invece di leggere un libro, davo un’occhiata alle ultime notizie della mia Home chattando con qualche amico.

Così, una domenica mattina, ho realizzato il mio Social Suicide…».

Lo dice un universitario, Prospero Pensa, che sabato 23 marzo ha pubblicato sul Corriere della Sera un articolo con le ragioni che lo hanno spinto ad abbandonare il più diffuso social network, Facebook.

Ci sono varie angolazioni dalle quali valutare questo edificante episodio. A me interessa quello dello spreco di tempo su internet. L’esperienza comune dice che qualsiasi ricerca, dalla più generale alla più puntuale, richiede una gran quantità di tempo. E la qualità dei risultati, del materiale trovato, è spesso insoddisfacente. Internet è un divoratore di tempo. Per non parlare dell’effetto dei social network.

Lego queste considerazioni al bisogno di trovare con facilità e in poco tempo contenuti di qualità Il giornalismo dovrebbe rispondere a questa richiesta. E la speranza è affidata alle applicazioni e alle versioni digitali dei giornali per i tablet, oltre alla “montagna” di informazioni cui si potrebbe attingere avendo accesso agli archivi di giornali e riviste. Ne ho parlato quando ho cercato di definire cos’è una rivista, un periodico e perché c’è una corsa ai contenuti giornalistici di qualità.
Ma quanto tempo si spende su Internet? A questa domanda risponde una ricerca pubblicata da Audiweb a inizio anno. Vi si legge che: «Nel 2012, gli utenti hanno speso online 1 ora e 23 minuti nel giorno medio, consultando 145 pagine».

Corriere della Sera: la fuga di uno studente da Facebook

Audiweb: diffusione di internet e tempo passato in rete
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Provocazioni/ I quotidiani a lezione di scrittura dai blog e dai periodici

Bisogna cambiare e rinfrescare il modo di scrivere gli articoli dei nostri giornali se non si vuole apparire vecchi e superati nell’era digitale.

L’esempio potrebbe venire dai blog e dai periodici, per inaugurare una stagione che si ispiri al movimento del New Journalism degli anni Sessanta e Settanta, quello predicato dallo scrittore americano Tom Wolfe (autore del Falò delle vanità).
Ne parla il sito Lsdi (Libertà di stampa, diritto d’informazione) che ha tradotto articolo di Frederic Filloux pubblicato, tra gli altri, da The Guardian: potete leggere qui oppure qui, in originale. Riporto una sintesi della traduzione di Lsdi. Interessante soprattutto il passaggio sui periodici. Naturalmente l’autore (Filloux) ha in mente il giornalismo anglosassone quello, lo sappiamo, ossessionato dall’andamento oggettivo del racconto, dalla secchezza da agenzia stampa delle frasi, dalle citazioni esatte e un po’ noiose (non parlo del Sun, naturalmente). Da un punto di vista italiano, abituati come siamo al giornalismo narrato di La Repubblica, la lezione anglosassone conserva un certo fascino.

The Need for a Digital “New Journalism”
di Frederic Filloux

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Riflessioni su Rcs, 640 esuberi, 10 periodici da vendere (o chiudere)

Il maggiore editore italiano affronta la crisi di Gruppo e della carta stampata annunciando interventi straordinari e d’emergenza. In Italia saranno tagliati 640 posti di lavoro, una parte dei quali tra i giornalisti, e si prevede la vendita, o, in alternativa, la chiusura, di dieci testate periodiche. Trasferimento in arrivo per i quotidiani del Gruppo, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: si avvicina l’addio alla storica sede di Via Solferino del più prestigioso giornale del nostro Paese.

La notiza era da tempo nell’aria. Ma il colpo è stato più forte del previsto. Rcs Mediagroup ha annunciato interventi durissimi sulle proprie testate come misura per fronteggiare la crisi della carta stampata.

Naturalmente sono molte le inquietudini che accompagnano queste notizie: se uno dei principali attori abbandona il campo dei periodici, o quasi, quale futuro si può immaginare per settimanali e mensili? Osservo che crescono solo gli editori che fanno della gestione “all’osso” una filosofia: Cairo Communication e Guido Veneziani. Probabilmente l’editoria low cost vivrà una stagione di espansione, perché, tra l’altro, si approprierà delle testate messe in vendita da editori in difficoltà. Hanno ancora uno spazio i giornali di Condé Nast, che occupano la fascia alta, quella che punta su prodotti di altissima qualità per un lettorato ambizioso o elitario. Ma una stagione del giornalismo italiano sembra volgere al tramonto. E poiché Mondadori ha annunciato da settimane tagli e chiusure di giornali, viene da pensare che la sofferenza degli editori che un tempo si dividevano il mercato nazionale corrisponda alla crisi non solo delle testate pensate e realizzate per il ceto medio, ma del ceto medio stesso. Sì, diranno. Ma c’è anche il cambiamento delle abitudini di consumo, le novità nella tecnologia, l’offerta infinita di contenuti nel digitale.

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Rcs, Mondadori, Repubblica e i numeri della crisi dei giornali

Le preoccupazioni in Rcs Mediagroup per l’arrivo di un piano di crisi che potrebbe colpire duramente i periodici. I tagli annunciati in Mondadori, dove saranno chiusi quattro mensili. La ristrutturazione a l’Espresso, Radiocor, la Stampa. I tuoni su altre società. L’editoria è nella bufera. E i giornalisti sanno che le difficoltà sono moltiplicate dalla fragilità di chi dovrebbe sostenere i lavoratori che perdono il posto.

Da varie parti (ne cito una: Reuters) si ricorda che domani in Rcs Mediagroup inizia un percorso che dovrebbe portare, per l’inizio di marzo, alla presentazione da parte dell’azienda di uno stato di crisi per le proprie testate, quotidiani e periodici, nel quale sarebbero previsti sacrifici pesanti soprattutto per i secondi.

In questi giorni in Mondadori si procede all’analisi interna della situazione e ogni giorno escono i numeri degli esuberi tra i redattori di testate grandi e piccole, da Panorama a Ciak (sono numeri certi? Lettera43 e Italia Oggi li rivedono ogni giorno).

Nel frattempo all’agenzia del Sole24Ore, Radiocor, c’è fibrillazione, come riporta Franco Abruzzo, per la modifica al contratto di solidarietà: il taglio alle retribuzioni dei giornalisti dovrebbe passare dal 9% al 35% dello stipendio (il contratto di solidarietà applica il principio “lavorare meno, lavorare tutti”: non si licenzia nessuno ma si riduce il reddito dei lavoratori per un certo periodo, nella speranza che basti a superare le avversità).

Una situazione molto seria, perché, come racconta un articolo di Lettera43 che riprendo dal sito di Franco Abruzzo e riporto in link (trionfo del gioco degli specchi su internet e dell’aggregazione moderna: ma credo che qualche pezzo originale di Futuro dei Periodici, farina del sacco, abbia ispirato articoli di apprezzate testate online), dicevo, situazione molto seria perché cigola sotto il peso della crisi l’istituto di previdenza dei giornalisti, Inpgi, che sostiene il costo dei contratti di solidarietà e della cassa integrazione, gli strumenti con cui le aziende e i giornalisti cercano di alleggerire l’impatto della crisi sui lavoratori e di conservare i posti di lavoro.

Dal 2009 sono 37 le aziende per cui è stata riconosciuta la crisi, 591 giornalisti sono stati pensionati, 1210 sono finiti in cassa integrazione, 1019 hanno contratti di solidarietà.

Il Punto: è in discussione la tenuta del sistema. Il sistema creato da editori e giornalisti.

Lettera43 feat. Franco Abruzzo: crisi dell’editoria 2013

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Occhio alla Zeitungssterben, la «morte dei quotidiani». In Germania, Francia, Italia

Leggo sul Financial Times che in Germania la crisi dei quotidiana si è guadagnata un nome preciso: Zeitungssterben, «la morte dei quotidiani». Detto in tedesco ha un’icasticità che sarebbe vano tentare di riprodurre in italiano.
Naturalmente l’articolo (che potete leggere in inglese nel link riportato alla fine di questo post) racconta della chiusura del “cugino” Financial Times Deutschland, annunciata qualche giorno fa dall’editore Gruner und Jahr, divisione della stampa periodica del gruppo Bertelsmann, e riferisce della bancarotta della Frankfurter Rundschau.

Il discorso si allarga poi a Spagna e Italia. E si ricorda che l’Europa sta in realtà affrontando ora quella crisi che nel 2008 ha colpito i quotidiani negli Stati Uniti.

Ma quale è la responsabilità degli editori tedeschi? Con mia sorpresa si addita il ritardo nello sviluppo digitale (sorpresa perché tra gli editori tedeschi figura quell’Axel Springer considerato invece da molti un apripista e un modello di crescita nel digitale), ritardo rispetto alla Gran Bretagna, soprattutto quando si pensa alla diffusione dei tablet e alla possibilità di vendere i quotidiani in abbonamento sui nuovi device.

In Germania la diminuzione delle copie vendute dei quotidiani è stata del 17% tra 2005 e 2012. Meno di quanto accaduto in Gran Bretagna (cali tra il 40 e il 50 per cento).

Ma il problema vero è stata la flessione della pubblicità. Con il passaggio al web di molti inserzionisti, la raccolta complessiva in Germania ha perso in 12 anni il 45%. La pubblicità, tema su cui batte e ribatte questo blog come un tamburino sul suo tamburo.
Un passaggio del pezzo riporta delle voci in Italia di possibile fusione, smentita dagli editori, del Corriere della Sera con la Stampa. A me interessano soprattutto le considerazioni finali, non trascurabili da chi ha un occhio sui periodici.Un analista di Bernstein Research di Londra ritiene che il taglio dei costi non salverà gli editori tedeschi ed europei e ci saranno altre vittime.Per Claudio Aspesi, a livello globale probabilmente «solo una manciata di editori riuscirà a sviluppare modelli di business sostenibili e saranno, probabilmente, i grandi brand internazionali» come Financial Times o il New York Times. «Gli altri dovranno cercarsi un oligarca che li finanzi o trovare protezione sotto organizzazioni più grandi».Les Échos, in Francia, è di proprietà del gruppo del lusso LVMH: Le Monde è finanziato da un gruppo di businessmen vicini alla sinistra, Le Figaro è del gruppo Dassault.E l’Italia? We have run out of oligarcs.

M’interessa perché: spiega qual è l’impatto del digitale sui quotidiani tedeschi.

Financial Times: Zeitungssterben, la “morte dei giornali”

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Che tempo che fa/ Lunedì 13 novembre sciopero in Rcs Mediagroup

Scioperano lunedì 13 novembre i giornalisti dei settimanali e dei mensili di Rizzoli. La società che pubblica i periodici si chiama Rcs Mediagroup. Scioperano i giornalisti in concomitanza con la convocazione del Consiglio di amministrazione che deve leggere, valutare e approvare la relazione trimestrale sui risultati del Gruppo al 30 settembre 2012. La ragione dell’agitazione dei dipendenti è legata alla ormai vicina presentazione da parte della dirigenza della società di un piano di ristrutturazione che potrebbe prevedere, tra le altre, l’uscita di giornalisti dai periodici e dai quotidiani (Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport) e la chiusura di alcune testate. Il piano verrà presentato agli azionisti a dicembre inoltrato (leggo il 19 dicembre). Quanti siano gli esuberi e quali le testate da chiudere (o vendere) non si sa, anche se le voci sono numerose e le indiscrezioni ricche di particolari. Ma, da giornalista che lavora nel settore, trovo di pessimo gusto fare pronostici e mettere in giro voci. E’ il lavoro dei giornalisti? A me risulta che il lavoro dei giornalisti consista nel fare una distinzione tra ciò che è certo, probabile, possibile, inesistente. Altrimenti siamo tutti giornalisti.

M’interessa perché: 1) si avvicina lo scontro tra giornalisti ed editori.

Il punto: come uscire dalla crisi: solo tagli?

La fornte: primaonline.it

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Gli editori italiani vogliono far pagare Google

Ovvero, ritornare al concetto che le notizie sui giornali sono frutto del lavoro di qualcuno e, in quanto tali, prodotti che vanno pagati da chi li consuma. Come un romanzo. Come la musica registrata. Al servizio pubblico pensa, o dovrebbe pensare, la Rai. Nelle biblioteche, luoghi bellissimi dove vorrei passare le giornate, si può leggere gratuitamente, e anche nei bar, pagando un caffè per sfogliare i giornali e accedere alle notizie intese come commodity, «ovvero un bene che può essere fruito, senza differenze sostanziali, da più fonti informative» (news come commodity).

E’ sempre stato così (con l’eccezione delle tv generaliste e della radio). Ma internet ha distrutto questa semplice verità

Grazie ai motiri di ricerca possiamo accedere alle notizie dei giornali senza pagar nulla. Possiamo leggere estratti dei principali articoli pubblicati online dai quotidiani. I motori di ricerca, Google in testa, aggregano notizie e traggono enormi profitti dal lavoro di editori e giornalisti, grazie alla pubblicità.

In Italia Google ha superato quest’anno in settembre la Rai nella raccolta pubblicitaria. Già due anni fa internet, nel nostro paese, faceva ricavi pubblicitari equivalenti a quelli dell’intero settore dei periodici, e la metà veniva intascata da Google. Se Fabio Vaccarono ha lasciato lo scorso luglio Manzoni advertising, concessionaria di pubblicità de L’Espresso, per diventare country manager di Google Italia, un motivo c’è. Ed il motivo è che il gigante dei motori di ricerca vuole crescere ancora e raggiungere in pochi anni un fatturato pubblicitario equivalente a quello di Mediaset. In altre parole, Google vuole diventare Mediaset, quel che il principale gruppo televisivo privato italiano è stato nei passati 30 anni.

Non deve quindi stupire (arriviamo alla notizia di questo post, ci arriviamo dopo una lunga introduzione, trasgredendo alla regola numero uno del giornalismo: notizia nell’attacco) la richiesta avanzata in questi giorni dalla Fieg, la Federazione italiana editori giornali, che chiede una legge per tutelare il diritto d’autore verso Google, gli aggregatori di news online e internet nel suo complesso.

Gli editori italiani della Fieg annunciano che la loro azione averrà di concerto con gli editori francesi, i quali, bisogna dire, sono più avanti, perché hanno già ottenuto l’appoggio del ministro francese all’Innovazione e all’Economia digitale, Fleur Pellerin. Italiani e francesi si coordineranno con i tedeschi. In Germania la Federazione dedli editori di quotidiani e l’Associazione degli editori di periodici hanno lanciato un’iniziativa giudiziaria contro Google, ottenendo l’appoggio del cancelliere Angela Merkel.

Questa “guerra” per il diritto d’autore sta assumendo contorni globali. In Gran Bretagna la Newspaper licensing agency già chiede somme agli aggregatori di notizie online. Ed è notizia di questi giorni che gli editori di quotidiani brasiliani hanno deciso di abbandonare Google. A qualcuno farà ridere il fatto che siano brasiliani, ma Google non ride: si tratta di decine di milioni di lettori/utenti.

M’interessa perché: 1) si ristabilisce il principio che l’informazione industriale è un prodotto di processi lavorativi e sudor della fronte, da tutelare e remunerare; 2) sta prendendo forma uno scenario in cui internet viene scavalcato e si accede direttamente a siti e piattaforme digitali che hanno notizie, con l’url o attraverso applicazioni; 3) in altre parole, l’accesso potrebbe in futuro diventare controllato e sottoposto a condizioni, non più libero; 4) non a caso l’articolo di Lettera43 riporta un’indiscrezione, secondo cui Repubblica e Corriere della Sera vorrebbero far pagare dal gennaio 2013 l’accesso ai loro siti di new, con un sistema paywall forse simile al New York Times.

Il punto: dare una prospettiva di sopravvivenza e, si spera, sviluppo all’industria delle notizie, anche con la modernizzazione e innovazione di contenuti, modalità di fruizione, tecnologie.

Fieg: ditirro d’autore e aggregatori di news su internet

Lettera43: news online a pagamento

Wall Street Italia: Google supera la Rai nella pubblicità

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Tagli e chiusure di testate in Rizzoli (Rcs)

L’autunno caldo della stampa è appena iniziato. La vicenda dei 36 esuberi in Gruner und Jahr, su 72 giornalisti, è, purtroppo, solo l’antipasto. Oggi Milano Finanza ha pubblicato un breve articolo sul piano di ristrutturazione che circolerebbe, in questi giorni, nelle stanze che contano di Rcs Mediagroup.

Solo indiscrezioni, sia chiaro, non notizie su decisioni già prese.

Ma l’eco che il trafiletto di MF ha avuto nelle redazioni dà l’idea di quanto siano tesi i nervi.

La bozza, stesa dal presidente Angelo Provasoli e dall’amministratore delegato Pietro Scott Jovane, da sottoporre ai soci e al sindacato, pare preveda un taglio del 10% della forza lavoro (giornalisti e non) e chiusure di testate. Tra i giornali a rischio, A (Anna) e Novella 2000. Ma prende consistenza anche l’ipotesi che ci siano esuberi nei quotidiani di Rizzoli, il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, per decine di giornalisti, fino a 100, complessivamente.

M’interessa perché: 1) la crisi è gravissima, tra cali di diffusioni e collasso della raccolta pubblicitaria.

Il punto: al momento non c’è transizione al digitale ma distruzione di posti di lavoro giornalistici. Il giornalismo è stato, oltre che informazione, intrattenimento, e questo “servizio”, nel mondo della comunicazione digitale, sarà fornito da produttori di contenuti non giornalistici. L’informazione vera, quella che dà notizie e approfondimenti, resterà, sia sulla carta sia sul digitale, ma sarà una piccola isola, non il continente che finora abbiamo conosciuto. O no?

Milano Finanza: i tagli di Rizzoli

Tagli Rcs e minaccia di scioperi, aggiornamento 31/10/2012

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36 giornalisti in esubero a Focus (Gruner und Jahr / Mondadori)

36 giornalisti in esubero, dunque destinati alla cassa integrazione: è questa la richiesta presentata ai sindacati dall’editore di Focus, Geo e Jack, la società Gruner und Jahr Mondadori, joint venture dell’editore tedesco Bertelsmann e del marchio di Segrate.

Il piano di Stato di crisi è stato presentato ai dipendenti mercoledì 3 ottobre e prevede la chiusura di tutte le testate dell’editore tranne Focus, Focus Storia, Focus Junior, Focus Pico. Addio a Jack, Geo, e a molti spin off di Focus, da Wars a Domande e risposte e Brain Trainer.

L’articolo del Corriere della Sera, che vi invito a leggere usando il link qui sotto, è più ricco di dettagli e racconta la manifestazione di protesta dei giornalisti che si è svolta sabato 6 ottobre davanti al Museo nazionale della scienza e della tecnologia di Milano.

Ma perché riportare questa notizia in questo blog?

M’interessa perché: 1) spiega qual è l’impatto sugli editori della crisi del mercato editoriale; 2) mette in evidenza l’imbarazzo di editori che non hanno investito con decisione nel digitale.

Il punto: il digitale distrugge lavoro giornalistico? La frantumazione dell’offerta (penso alle mille letture e ricerche possibili online) elimina la necessità dei marchi editoriali tradizionali, fino a oggi garanti della selezione delle notizie e della loro accuratezza?

Corriere della Sera: 36 licenziamenti a Focus (Gruner und Jahr Mondadori).

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