Archivio mensile:Maggio 2013

Per competere con Google non cercare di imitarlo, editore!

Come gli editori possono competere con Google e le grandi compagnie digitali non giornalistiche nella caccia alla pubblicità online? Un articolo uscito nel sito di Nieman Lab racconta le strategie di quattro realtà giornalistiche americane che si sono mostrate innovative.

Quel che mi colpisce della indagine di Ken Doctor, esperto di editoria di cui questo blog si è già occupato, è la messa a fuoco di un punto: gli editori di prodotti giornalistici non devono inseguire Google e le altre compagnie digitali sulla strada dei contenuti a basso prezzo. Da sempre la stampa propone contenuti premium, rivolti a fasce demografiche e sociali bene individuate, dunque appetibili per le aziende. Questo va fatto anche nel digitale. Altrimenti si è destinati a soccombere.

Sono concetti che aprono gli occhi a chi, come me, non s’intende di new media, lavora nella carta stampata e non riceve una formazione per capire le logiche del digitale.

Per dire… Facebook, che negli Usa raccoglie un quarto della pubblicità nel digitale, vende lo spazio agli inserzionisti a 80 centesimi di dollaro ogni mille impressioni, mille pagine viste. Ma a questi prezzi nessun editore può sopravvivere, perché produrre contenuti giornalistici costa molto, e non ci si sta dentro. Questo ormai mi è chiaro. Gli editori, dice Ken Doctor, vogliono, devono guadagnare da 20 a 50 volte di più.

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La pubblicità sui giornali oggi la raccolgo così – Nuove strategie nei periodici

Il globale, il locale: la mossa di un grande editore americano sulla pubblicità getta luce su analoghe iniziative di editori italiani. Concentrazione del volume di fuoco nella pubblicità, mettendo insieme le diverse piattaforme e più testate.

Ho messo insieme due notizie lette questo mese. Una sui magazine di Hearst a livello globale, l’altra su Mondadori.
Far uscire la stessa pagina pubblicitaria su tutti i giornali di un editore, anche quelli pubblicati all’estero, per moltiplicare la capacità promozionale. E guadagnare di più. Un’impresa difficile per tutte le case editrici. La pubblicità, infatti, è nel maggior numero dei casi legata a mercati locali. Nazionali.
Ma Hearst, l’editore americano di Cosmopolitan e Marie Claire, ha aperto una nuova divisione, Totally Global Media, che si occupa di questo in chiave puramente digitale. Per la prima volta sarà possibile far uscire inserzioni e campagne promozionali nelle versioni online dei giornali in diversi Paesi. Hearst possiede infatti un network internazionale con succursali straniere a gestione diretta (anche in Italia) e pubblicazioni date in licenza a editori stranieri. La divisione che si occupa di Totally Global Media ha due sedi, a New York e Londra, e sa di poter raggiungere un bacino di 200 milioni di utenti unici.
Funzionerà così: l’inserzionista paga una sola fee, tariffa, che include produzione, traduzione e hosting sui siti web di riviste presenti a livello internazionale.
L’offerta parla ai marchi internazionali come Burberry.
When my plane arrived in Beijing last year, there was a full-sized Burberry poster that just said Burberry.com with a picture of a purse—no Chinese characters,” Gina Garrubbo, svp of Hearst Magazines International and now the svp of TGM, said. “They have the same look and feel everywhere in the world.”
Quando sono atterrata a Pechino lo scorso anno, c’era un cartellone di Burberry su cui c’era la foto di una borsetta e la scritta Burberry.com. Niente ideogrammi cinesi, ha detto Gina Garrubbo, alla guida di Totally Global Media.
Mi ricorda molto questa cosa che ho letto sul rilancio di alcune testate Mondadori avvenuto in questi giorni. Tre giornali femminili, in versione rivisitata, sono stati presentati agli investitori come un’unica piattaforma pubblicitaria, con target diversificati, che permette di portare inserzioni e campagne promozionali a 3,6 milioni di lettrici e 5,3 milioni di utenti unici dei siti. Una mossa di sostegno alla pubblicità (seppur circoscritta all’ambito nazionale) che, a quanto pare, fa parte delle strategie presenti nella mente dei maggiori editori.
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Periodici: il dialogo tra versione per tablet e sito web delle riviste

Un’intervista. Al guru dell’editoria digitale. Parla Lewis DVorkin, capo dei contenuti di Forbes. Si discute delle applicazioni per tablet dei periodici. E del dialogo tra queste e il sito della testata. Una catena di trasmissione che moltiplica il coinvolgimento del lettore. La circolazione dei contenuti.

Riporto uno stralcio di un’intervista a DVorkin, vecchia conoscenza di questo blog, personaggio controverso (“informazione e pubblicità devono essere sullo stesso piano, avere pari dignità nei giornali”) ma stimolante.

Gli chiedono quale sia l’importanza del tablet per i periodici.

Ci sono varie ragioni per cui le riviste possono ricevere vantaggi dalle applicazioni per iPad e tablet.

La prima è la pubblicità. Qualsiasi azienda vuole che la sua pubblicità sia bella. Sui periodici le inserzioni sono valorizzate più che altrove per qualità della carta, della stampa, il formato grande. Ma sul tablet è ancora meglio. E in più c’è, ci può essere l’interattività.

Si parla dell’app di Forbes per tablet lanciata in gennaio. Non è una semplice copia del giornale ma una finestra sui contenuti del sito, aggiornati ogni giorno. E una finestra sulla parte social (condivisione, commenti, dialogo su Facebook, Twitter etc).

L’app per tablet è stata presentata dopo un gran lavoro sullo sviluppo del sito. Esempio. Quando è stato pubblicato il numero di Forbes sugli uomini più ricchi del mondo, l’applicazione per tablet aveva 1.900 link all’«underlying content on Forbes.com, both real-time and archival», 1.900 link al sito web sottostante, sia ai contenuti aggiornati di continuo sia agli archivi.

Insomma, il tablet è la superficie, il sito è la montagna nascosta. Bella immagine. Non ci avevo mai pensato. Mi fa capire qualcosa di nuovo.

Il Punto: come i periodici siano diventati realtà multipiattaforma, con espressioni diverse ma integrate.

Netnewscheck: il rapporto tra sito e tablet nei periodici.

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La fuga dei lettori italiani da quotidiani e periodici – Dati Audipress sul lettorato

Calano i lettori di quotidiani, settimanali, mensili. Con punte negative, nelle riviste, del 26%. Poche le eccezioni positive, nessuna nei settimanali. Il Corriere della Sera scende del 6,7%, la Repubblica del 5,8%.

Questi numeri riguardano naturalmente non le copie vendute ma i lettori complessivi, incluse le persone che non comprano il giornale perché lo trovano a casa o nei luoghi pubblici. Per questo sono dati più alti delle cosiddette diffusioni.

I dati di Audipress dicono che gli italiani in età adulta sono 51 milioni 623 mila, di cui circa 24 milioni 700 mila uomini e 26 milioni 800 mila donne.

Leggono quotidiani circa 21 milioni d’italiani, in calo, rispetto alla precedente misurazione, del 6,7%: mancano all’appello un milione 500 mila lettori.

Leggono settimanali quasi 21 milioni d’italiani, di cui 7 milioni 700 mila uomini e 13 milioni di donne. Queste riviste sono dunque prevalentemente rivolte al pubblico femminile. Le riviste con questa periodicità hanno perso un milione e mezzo di lettori, il 6,9%. Sono lettori persi in pochi mesi, perché si mettono a confronto sondaggi fatti tra settembre e dicembre 2012 con i primi tre mesi del 2013 (lo stesso vale per i mensili). Il calo maggiore riguarda il femminile A-Anna, una delle 10 testate messe in vendita da RCS Mediagroup, che cala del 19%.

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Quando gli utenti ne sanno più dei giornalisti, un buon giornalista che cosa dovrebbe fare?

Riprendo dal mio guru, Lewis DVorkin, capo del digitale di Forbes, personaggio vulcanico, provocatorio e perfino discutibile, una lezione sugli strumenti a disposizione  del giornalista nell’era digitale.

DVorkin fa il ritratto di alcuni giornalisti di Forbes, parte di una rete di 1000 contributors, che lavorano sia per il sito web della testata sia per la versione cartacea.

Vengono fuori modi di lavorare diversi, tutti però connessi alla realtà digitale e agli strumenti che questa offre. Perché siamo entrati nell’epoca in cui il lettore ne sa più del giornalista, di qualsiasi cosa esso si stia occupando. Ma, a differenza del passato, questo lettore può raggiungere con grande facilità l’autore degli articoli, dialogare con lui, arricchirne l’esperienza, dare spunti di lavoro e perfino criticare quel che è stato messo nero su bianco.

(Ieri sulla Lettura, inserto del Corriere della Sera, Antonio Polito ha fatto dell’ironia sui giornalisti italiani che usano Twitter come una vetrina e non come uno strumenti di scambio con il lettore, subito pronti a ritirarsi se arriva qualche critica – chiaro il riferimento a Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, che ha da poco lasciato Twitter, appunto, perché preso di mira da alcuni follower. Sinceramente dubito che i giornalisti italiani famosi usino i social network per fare il loro mestiere. I giornalisti italiani famosi sono opinionisti, direttori, mezzibusti. Non redattori, corrispondenti, reporter, inviati. A loro serve una vetrina, non uno strumento d’indagine. E chi cerca la vetrina non accetta critiche).

Torniamo ai “ragazzi” di DVorkin, eccone tre.

George Anders, giornalista con 30 anni di esperienza alle spalle, ritiene che il toolkit digitale disponibile oggi, gli strumenti del mestiere, sarebbero stati una manna 20 anni fa. Siti web specializzati su cui trovare materiale, Skype per fare interviste in ogni parte del mondo a poco prezzo, Youtube con la sua raccolta di interviste di personaggi importanti, file wav delle proprie interviste che, negli Stati Uniti, possono essere trascritti da società specializzate per pochi dollari.

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Se Playboy viene pubblicato a Gerusalemme, città santa per tre religioni

Prendi una rivista piccante, prova a pubblicarla in un Paese diverso dalle altre nazioni moderne e vedi quali reazioni suscita: è questa la sfida per Playboy, che da due mesi esce con un’edizione scritta in ebraico.

L’articolo che ne parla è sul sito dell’Atlantic, mensile americano (esce dieci volte all’anno) di politica e attualità, serissimo (il link è alla fine di questo post).

Si racconta di come Playboy, rivista presente in 30 Paesi, possa ancora costituire uno scandalo in una nazione come Israele, dove convivono a 70 chilometri di distanza Tel Aviv, centro laico aperto alla cultura occidentale, che non si nega vita notturna, nightclub e bellezze in bikini, e Gerusalemme, città santa per le tre grandi religioni monoteistiche (cristianesimo, islam, ebraismo), che contrappone al mondo secolarizzato gli abiti scuri e i cappelli neri della destra religiosa, impegnata in una battaglia contro molti aspetti della modernità.

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Idee da copiare nel nuovo sito di Newsweek /2

È stato lanciato questa settimana il nuovo sito di Newsweek. Ne ho parlato qui. Torno sull’argomento perché ci sono concetti da esplorare, laggiù. Come il rifiuto della logica delle breaking news, per il sito di un newsmagazine. E la rilevanza di immagini e strumenti di condivisione.

La passione per come vengono disegnati i giornali mi fa tornare sull’argomento: c’è molto da dire sul restyling del sito di Newsweek. L’obiettivo, dicono gli autori dell’operazione, è ricreare sul digitale l’esperienza del long form content, gli articoli lunghi, un compito svolto non bene, finora. Si sostiene che sfuggire alla logica delle breaking news è, per una pubblicazione settimanale, una raison d’etre.

“We felt there was still a place in the media landscape for taking a step back, reflecting, and framing the week…this idea that there’s been a set of editorial decisions about what the most important things are to focus on.”Here he’s talking about the irritating, pageview-grabbing tactics like splitting long articles up into a dozen smaller chunks, hiding visual content behind endless, slow-moving slideshows, and throwing any and all news against your screen in the hope that some of it will stick.

Abbiamo pensato che c’era ancora uno spazio, nel panorama dell’informazione, per fare un passo indietro, riflettere, e sezionare la settimana… l’idea che una serie di valutazioni editoriali giustifichino la scelta di quali siano gli avvenimenti su cui concentrare l’attenzione. Superando le irritanti strategie che portano, per fare più pageview, a spezzare gli articoli, mortificare l’immagine con noiose foto gallery, trucchetti per far girare le news.

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Vendono solo i bookazine – I periodici americani nel primo trimestre 2013

I primi tre mesi del 2013 hanno registrato negli Stati Uniti il maggior calo di sempre nelle vendite di periodici.

Nel primo quarto dell’anno i fatturati sono scesi dell’11 per 100 e le copie vendute sono crollate del 14,5 per 100.

Soffrono i periodici più diffusi e popolari, i primi 50. Che incamerano il 97 per 100 delle perdite. Pari a 96 milioni di dollari. Tengono meglio gli altri, dal 51esimo al 1000esimo.

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Il declino della pubblicità sui quotidiani americani: in cinque anni perso il 60%.

Guardate la tabella. Indica il declino della pubblicità sui quotidiani americani. Dal 2005 a oggi il calo è stato del 60%. Sette anni, un’altra epoca.

Newspaper and ad

Nel 2012 la raccolta pubblicitaria è calata dell’8,5%, a 18,9 miliardi di dollari. Il picco era stato raggiunto nel 2005 con 47,4 miliardi di dollari. Il bello è che nel 2012 la spesa complessiva in pubblicità negli Stati Uniti è cresciuta del 3%, a 139,5 miliardi di dollari. In altre parole, la pubblicità cresce ma la carta stampata è stata superata da altri media.

E i periodici, cui questo blog è votato? Nel 2012 sono state raccolte 150.699 pagine di pubblicità contro un totale di 243.305 pagine nel 2005. In sette anni il calo è stato del 38%.

Il Punto: il crollo di una delle due grandi voci di ricavo della carta stampata.

Media Daily News: il calo della pubblicità nella carta stampata americana.

Media_Daily_News

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Dall’obiettività al giornalismo dell’interpretazione – Una ricerca della Columbia sull’era digitale

Una ricerca della Columbia University mostra come il giornalismo che riporta i fatti stia lasciano il posto al giornalismo che interpreta la realtà. C’è uno spostamento dal resoconto degli avvenimenti, nel nome dell’obiettività, all’analisi di quel che accade. Un processo iniziato negli anni Novanta e accelerato dal digitale. Perché nel web si celebra l’orgia delle notizie. Ma la gente ha bisogno di significato.

Lo abbiamo detto mille volte, il Web è il regno della notizia ridotta a commodity, qualcosa che viene riportato e copiato mille volte, senza valore aggiunto, un moltiplicatore che toglie valore al lavoro di chi raccoglie i fatti e li riferisce. Per questo, si dice, l’informazione è diventata gratuita e i giornali sono entrati in crisi. Encefalogramma piatto.

Ma nell’epoca dei reporter della porta accanto (il citizen journalism, il giornalismo partecipativo) si sente la mancanza di qualcuno che sappia spiegare il significato dei fatti, che li interpreti e dia una bussola alle persone.

Da qui l’analisi della Columbia University di New York che ha provato a quantificare le notizie presenti sui giornali americani, dal 1955 a oggi, dividendole in quattro categorie: coventional news, cioè il resoconto di qualcosa che è accaduto nelle ultime 24 ore; contextual news, storie che contengono analisi, interpretazione, spiegazione; investigative journalism, che mette sotto la lente i poteri e i potenti; social empathy, storie di persone interessanti.

Il risultato è la crescente importanza delle contextual news, dunque le analisi e le interpretazioni, rispetto alle conventional news, il semplice resoconto. Cliccate sulla tabella per ingrandirla e vedere i risultati dello studio della Columbia.

tipologie di giornalismo

Perché questo sta avvenendo?

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Ridisegnando Newsweek – Come deve essere il sito web di una rivista

Ho iniziato a leggere l’articolo di Nieman Lab intitolato Shetty talks Newsweek’s relaunch, user-first design, magaziness, and the business model, sul rilancio della rivista d’attualità statunitense Newsweek e la presentazione della versione beta del sito, pensando che la cosa interessante fosse capire come un newsmagazine, tipo l’Espresso e Panorama, possa riproporsi come sito web leggibile e di successo.

Mi sono trovato invece davanti a cose, spiegate da Baba Shetty, amministratore delegato di The Newsweek Daily Beast Company, che edita appunto Newsweek, che possono avere una validità per qualsiasi rivista voglia affermarsi nel mondo digitale.

Di cosa parlo. Shetty spiega come è stato ridisegnato il sito di Newsweek, il newsmagazine americano che dal 2013 esce solo in digitale, avendo dato l’addio alle edicole e all’edizione cartacea.

Nell’articolo si parla di tante cose, dall’accesso a pagamento al sito di Newsweek (che scatterà più avanti: correte dunque a vedere com’è newsweek.com, fino a quando è free) a come fare pubblicità in modo intelligente nel web.

Ma all’inizio di questa intervista pubblicata da Nieman Lab, fondazione per il giornalismo dell’università di Harvard, Shetty elenca quali caratteristiche di un magazine devono essere conservate nel sito web della rivista.

Ecco che salta fuori il concetto di magazineness, l’essenza del magazine. Cos’è un periodico? Cosa di un periodico deve essere conservato nel digitale, per riprorre al lettore la stessa esperienza di lettura della carta?

Il concetto di magazine viene decostruito.

Non c’è imitazione del giornale cartaceo, ma si conservano i concetti.

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Apriresti un sito di e-commerce del tuo giornale? – L’editore di Men’s Health lancia il negozio online

Rodale, l’editore di Men’s Health, si lancia nell’e-commerce con un sito web di prodotti naturali e molto fashion che portano il marchio della società. Per la prima volta i giornali non fanno da tramite tra venditori e lettori ma propongono una propria selezione, garantita dal brand. Il giornale apre il proprio negozio.

Ci sono l’asciugamano di microfibra per lo yoga, intessuto di strisce di cocco di riciclo, e un paio di jeans fatti con cotone non trattato chimicamente. Tazze di porcellana per noodle realizzate a mano con materiale “sostenibile” e articoli per il fitness, la bellezza, la piscina.

Rodale ha scelto 500 articoli che ritiene coerenti con la propria filosofia improntata al benessere, la salute, la forma fisica, incarnati dalle testate Men’s Health, Women’s Health, Prevention.

 

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Cosa succede se non leggi più il giornale a colazione – Lo stato dei media nel 2013

Il giornalismo sta attraversando un periodo di grandi opportunità, non solo di bilanci in rosso? Alan Murray, ex giornalista del Wall Street Journal e presidente del Pew Research Center, spiega invece qual sia l’esatta condizione dei giornali. Si va al punto: la perdita di pubblicità, l’irrilevante crescita delle copie vendute, la frammentazione dei new media.

Prima di lasciare spazio all’entusiasmo per il digitale, bisognerebbe capire cosa sta succedendo al giornalismo e quali saranno le conseguenze per le testate e per chi ci lavora. Una sintesi viene fatta da Alan Murray, per cinque anni responsabile dello sviluppo digitale del Wall Street Journal, presidente da alcuni mesi del prestigioso Pew Research Center, organizzazione no profit che ogni anno rilascia un rapporto sullo Stato dei media. Potete ascoltare l’intervento di Murray alla George Washington University School of Media and Public Affairs. Ma ho selezionato alcuni punti e li ho sintetizzati in italiano. Potete leggerli qui sotto.

Sì, anche al Wall Street Journal, grazie al digitale, l’audience complessiva non è mai stata alta come in questi anni. 10, 15 volte superiore a quella che il giornale ha avuto nel periodo d’oro. Questo significa che il Wall Street Journal è in grande salute? Purtroppo no. In tutto il mondo avanzato, a causa dell’esplosione della comunicazione digitale, non c’è più un modello di business per i giornali, non si è ancora trovato il modo per ripagare e tenere in piedi il business.

 

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Giornali gay a Singapore: digitali per forza

Singapore è una società conservatrice in cui i rapporti tra persone dello stesso sesso possono essere puniti con il carcere fino a due anni. E la stampa è soggetta a un esame governativo per la licenza prima della pubblicazione. Due ragioni che hanno spinto la rivista bimestrale Element, che si occupa di moda, spettacolo, fitness e argomenti di interesse per i lettori omosessuali, al primo numero, a scegliere la strada del digitale. Lo si acquista su Apple Store o Android Marketing (come spiega l’articolo di Atlantic, in link alla fine di questo post). Chiaramente l’host server si trova all’estero, negli Stati Uniti, ma il lettorato è distribuito nei paesi asiatici limitrofi, tra cui la Malesia, dove essere gay può costare la galera per molti anni. Ma anche in Asia, come nel resto del mondo, la comunità gay viene considerata un mercato remunerativo per la pubblicità, non a caso tra gli inserzionisti di Element c’è Paul Smith, e poi catene di hotel di lusso, cibo di qualità, tecnologia, nightlife, viaggi. Inutile dire che a Singapore tutto quel che è digitale ha una grande presa. L’Asia sta superando l’Europa, l’Italia di sicuro.

M’interessa perché: 1) tra i vantaggi del digitale c’è la libertà per le minoranze e la riservatezza (date un’occhiata al precedente post su Playboy); 2) l’Asia sta superando il Vecchio Continente nella conversione al digitale;

The Atlantic: Element, rivista digitale gay di Singapore.

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In Sud Africa Playboy sarà solo digitale. Non per mancanza di lettori

Playboy abbandona la carta e diventa un giornale interamente digitale in Sud Africa. La società che edita la testata ha fatto sapere che la principale ragione dello spostamento è culturale: in un paese in cui ancora molte persone non si sentono a loro agio quando vengono viste mentre comprano il loro giornale preferito in un luogo pubblico, il digitale offre una soluzione che tutela la riservatezza. In questo caso non si potrà dire che il passaggio al digitale di una rivista è legato allo scarso interesse dei lettori, come invece Newsweek.

Playboy ha in Sud Africa un’estensione social di tutto rispetto, con 150 mila fan su Facebook, 25 mila follower su Twitter e 100 mila follower Twitter complessivi tra società che edita e playmate. Il traffico digitale ha incrementi mensili a due cifre.

M’interessa perché: 1) la riservatezza, non è anche questa un diritto? 2) il passaggio al digitale può favorire determinate riviste (date un’occhiata al prossimo post su Singapore).

Playboy digital-only in Sud Africa.

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Il giorno del trasloco – Editori che cambiano sede e… tenore di vita

Il palazzo del Miami Herald era diventato il simbolo del crepuscolo del giornalismo nell’era del digitale. Due giorni fa il quotidiano americano ha cambiato sede, mettendo fine a un’agonia raccontata anche sui media italiani. Ma la tendenza al trasloco non è solo americana. Come raccontano articoli di questi mesi.

Alla fine il Miami Herald, storico quotidiano della Florida, con mille dipendenti, ha traslocato. Ecco una foto della cerimonia d’addio, dopo la riunione di redazione delle 3 del pomeriggio, il 16 maggio.

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Il progressivo impoverimento del giornale è stato oggetto di articoli in tutto il mondo. La sede aveva una bellissima vista sul mare. Ma per tirar su qualche soldo un enorme cartellone pubblicitario era stato appeso alla facciata principale, oscurando le finestre di parte della redazione, proprio quelle che davano verso l’oceano. L’episodio è stato narrato in apertura di un importante rapporto del 2012 sulla transizione dei media, The Story so Far, della Columbia University. Non era sfuggito un diabolico dettaglio: la pubblicità che copriva il palazzo era di iPad di Apple, simbolo del digitale che avanza e manda in crisi i media tradizionali.

Miami Herald headquarters

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Write, read, inspire, connect – Gli imperativi del giornalista digitale

Come li traduciamo questi verbi? Scrivi, leggi, stimola, stabilisci una relazione? L’imperativo è rivolto ai giornalisti del digitale, e a quelli dei giornali di carta che, come me, vogliono impadronirsi degli strumenti digitali per creare una relazione moderna con i lettori (utenti/consumatori).

Riprendo allora un passaggio di un’intervista a Troy Young, il direttore digital di Hearst Usa, il primo, nominato la scorsa settimana. C’è la frase con write, read, inspire, connect. Le parole chiave per fare i giornalisti, oggi.

Ma va letta anche la parte sul modo in cui si deve misurare il successo dei contenuti digitali. Nella carta stampata si contano le copie vendute. Nel web, fino a oggi, gli utenti unici. Un sistema superato, dice Troy Young.

Concetto analizzato ieri in un post de ilgiornalaio di Pier Luca Santoro, blog che ha l’inspire nel sangue.

Advertising Age: You mentioned that part of your job is changing the way Hearst builds relationships with consumers online. In that case, what does your hiring mean for readers?

Mr. Young: We’ll be very analytical about what they’re reacting to and what’s engaging them. Like everyone else in the industry, we’ll be looking for new measurements of engagement that go beyond uniques and pageviews. If you’re looking for a measurement of relationship quality, a unique and a pageview doesn’t describe that quality of the reader. That will be a big focus: recalibrating what success means.

Ad Age: Lei ha detto che parte del suo lavoro sarà cambiare il modo in cui Hearst costruisce la relazione con i consumatori online. Quali saranno le novità?

Mr.Young: Misureremo con precisione quel che coinvolge i lettori e li spinge a interagire. Come chiunque nell’industria, cercheremo nuovi modi di misurare il coinvolgimento che vadano oltre gli unique visitor e le pageview. Se cerchi un metro della qualità della relazione, gli unique e le pageview non descrivono il valore di un certo lettore. Questo sarà uno degli impegni principali: ridefinire cosa significa aver successo.

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Perché le riviste stanno perdendo lettori – Polemiche sui condizionamenti della pubblicità

Alcune frasi tratte da un articolo che ha scatenato una polemica all’interno della Mpa, l’associazione degli editori americani di periodici.

Magazines are failing for many reasons, but what ends up being the silent, invisible nail in the coffin is when they attempt to save themselves by writing exclusively for their target advertising demographic.

I periodici stanno crollando per una serie di motivi, ma quello che mi sembra pesare di più è il tentativo di salvarsi rivolgendosi a un lettore dal profilo sociale scelto per ragioni pubblicitarie.

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Così il primo editore europeo di quotidiani guadagna nel digitale – Axel Springer e la crisi della Bild

Errata corrige? Nei giorni scorsi ho fatto un post su Axel Springer, primo editore europeo ad aver trovato la strada per il successo nel digitale. Segnalavo che anche i giornali, nonostante il calo, restavano un business rilevante per la società tedesca (dall’estensione continentale). Oggi vorrei spiegare come Axel Springer fa i soldi sulle nuove piattaforme. Nel frattempo è uscita la notizia che la media company starebbe per aprire uno stato di crisi con molti esuberi tra i giornalisti. Mio errore? No, Axel Springer rimane il primo editore in Europa nei quotidiani. Ma vuole raddrizzare i conti.

Nessuna errata corrige ma un cambiamento di prospettiva: Axel Springer vuole mettere ordine tra le sue testate della carta e per questo avrebbe intenzione di tagliare tra i 170 e i 200 giornalisti del suo principale quotidiano, il tabloid Bild. Un intervento pesantissimo, che cade su attività che garantiscono anche a inizio 2013 margini di profitto elevati.

Axel Springer è anche l’editore che per primo è riuscito a guadare il fiume del digitale, tentando di sviluppare i nuovi media. E per la prima volta nel 2012 i ricavi del digitale hanno superato quelli della carta stampata. Tutti i dati sui conti, aggiornati al primo trimestre del 2013, sono nel post di alcuni giorni fa.

Come ci sono riusciti? Faccio una rapida sintesi.
Solo un terzo dei ricavi da digitale provengono da attività giornalistiche, come i siti web e i portali delle testate. La parte restante è generata da marketing e siti di annunci e shopping.

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Rcs e la crisi della carta stampata: in Italia va peggio che altrove

Frasi della settimana scorsa, sulla crisi dei periodici, che continuano a ronzarmi nelle orecchie.

«Riteniamo -dice Federico Silvestri, amministratore delegato di Prs Mediagroup, che ha presentato un’offerta per rilevare i 10 periodici messi in vendita da RCS Mediagroup – che il problema del cartaceo così grave sia tutto italiano. In tutti gli altri Paesi la stampa europea flette, ma non a livelli come quelli visti nel nostro Paese. Ed è quindi qui, sui modelli di business, che vale la pena di fare dei ragionamenti».
In un’intervista a Italia Oggi l’ad di Hearst Magazines Italia ha parlato anche della crisi dei periodici. All’estero, in Francia, Germania, Gran Bretagna, l’avanzata del digitale erode del 5%, del 10% al massimo il mondo dei periodici. In Italia, così come in Spagna e Grecia, si paga la crisi del Paese. Che costa un 10% in più.

Credo che tra qualche mese, forse tra molti mesi, rileggeremo con uno sguardo più obiettivo quel che sta avvenendo nella carta stampata. Crisi strutturale, crisi dell’economia italiana: sappiamo che le due cose si sommano. Ma in che misura?

Il Punto: se la crisi è soprattutto italiana, allora i giornali hanno una prospettiva di ripresa, passata l’onda di piena.

AdnKronos: parla l’ad di Prs Mediagroup.

Italia Oggi: parla l’ad di Hearst Magazines.

adnkronos

ItaliaOggiTestata

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Cosa cerca la gente nel digitale? Parla il direttore digital di Hearst

Cosa devono offrire il sito, le app, la versione digitale, la parte social di un giornale? Non mi faccio una domanda oziosa perché è domenica. Da quel che raccolgo tra colleghi di diverse case editrici di periodici, la questione è aperta. Come differenziare il digitale dall’offerta sulla carta? E, soprattutto, nel digitale c’è anche giornalismo?

Riporto un passaggio dell’intervista a Troy Young, nominato pochi giorni fa primo presidente del digitale in Hearst Magazines, negli Usa. Le domande sono della rivista Advertising Age. Il testo integrale è nel link a fine post.

Ad Age: Anche l’e-commerce farà parte delle cose da sviluppare?

Mr. Young: L’e-commerce è molto interessante. Il mercato dei media ci si è buttato per cercare una nuova fonte di ricavi. Ma è fondamentale capire che la relazione con il consumatore viene prima, perché l’e-commerce richiede fiducia… e penso che le media company stiano cercando di capire come risolvere il problema. Il mio modo di vedere è questo: a meno che tu non offra uno staordinaro valore aggiunto, i consumatori troveranno strade più comode per fare i loro acquisti. Devi avere un’inesauribile attenzione per quello che i consumatori vogliono.

Il Punto: per avere successo nel digitale c’è bisogno di contenuti forti. Altrimenti la gente va altrove, anche a fare e-commerce.

Adweek: parla il direttore digital di Hearst/2.
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Ahi ahi la pubblicità nei giornali – Confronto tra Italia, Stati Uniti e Uk

Avrete letto che la pubblicità sui giornali italiani continua ad andar male. Il fatturato pubblicitario del mezzo stampa registra un calo del -25,5%. I quotidiani segnano -25,6% a fatturato e -13,2% a spazio. I periodici registrano un calo a fatturato -24,7% e a spazio -20,6%.
I settimanali vedono un andamento negativo sia a fatturato -26,3% che a spazio -16,6%. I mensili hanno indici negativi sia a fatturato -23,5% che a spazio -25,9%. Tempo fa si diceva che la situazione rispetto a un anno fa è decisamente peggiorata.

Ma qual è la situazione all’estero?

Nei giorni scorsi Magna Global ha previsto che, negli Stati Uniti, il 2013 vedrà una crescita della pubblicità nei media dello 0.4%, mentre nel 2014 la crescita sarà del 5.9%. I media digitali saliranno dell’11.5% nel 2013 e del 12.0% nel 2014. I quotidiani caleranno del 6.8% quest’anno e del 7,7% nel 2014. I periodici scendono del 6,7% quest’anno e del 5,4% nel 2014.

E la Gran Bretagna? Guardate la tabella.

Due le possibili considerazioni. Primo: i periodici perdono pubblicità ovunque, dunque ricavi. Sono costretti a trovare un equilibrio più in basso. Secondo: la situazione italiana è resa drammatica dalla crisi economica e di sistema del nostro paese.

Prima Comunicazione: pubblicità sui giornali marzo 2013.

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Ma voi la fareste una versione per iPad delle riviste italiane? – Diffusioni digitali marzo 2013

Poche copie digitali vendute nel marzo 2013 per i periodici italiani. Meno di quel che sembra, se considerate che Io Donna e D – La Repubblica delle donne sono trainate dai quotidiani cui vengono allegate per un piccolo sovrapprezzo. E allora domandiamoci: ma voi la fareste un’edizione per iPad delle riviste italiane? Una versione appositamente disegnata per il tablet, con un’intera redazione grafica dedicata all’impresa? Calcolato a spanne il rapporto tra costo e copie vendute, direi che è meglio lasciar perdere, per il momento.

Questo il link alla tabella sulle diffusioni digitali.

http://www.primaonline.it/wp-content/plugins/Flutter/files_flutter/1368092779Classifica_Ads_sett_marzo13.xls

Prima comunicazione: copie digitali dei periodici italiani nel marzo 2013.
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Cambiare la mentalità dei periodici? – Hearst nomina un presidente dei media digitali

Una notizia tutta americana che illumina un problema anche italiano.
Ieri Hearst Magazines, la divisione dei periodici di Hearst, ha creato una nuova figura dirigenziale, quella del presidente dei media digitali.

Troy Young, 45 anni, sarà responsabile dei brand digitali del gruppo, non di quelli sulla carta. Dunque guiderà Cosmopolitan.com e non il giornale per l’edicola. Elle.com e non il prodotto stampato.

Ma la cosa che può, anzi deve riguardare anche l’Italia, è la ragione che ha spinto Hearst a fare questa scelta.

Il presidente dei magazine ha spiegato che la società aveva bisogno di acquisire la mentalità delle società “pure play”, quelle che, nel gergo di Internet, esistono solo in una dimensione digitale. Come Amazon.

Non solo. Hearst sente la necessità di diventare più veloce nello sviluppo dei progetti, più propensa a prendere dei rischi, più adatta a relazionarsi con gli utenti in tempo reale.

Aveva bisogno del “pulse” del pure play.

Il Punto: come deve cambiare il modo di agire, quanto a velocità e mentalità, degli editori tradizionali.

The New York Times: Hearst nomina un presidente del digitale.

New York Times

New York Times

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L’editore tedesco che ha scoperto come superare la crisi – Primo trimestre 2013 di Axel Springer

Vorrei non fosse un post per esperti. Si snocciolano numeri ma la sostanza regala, a chi sa capire, un pizzico di emozione. Emozione per chi lavora nella carta stampata e teme di essere finito in un vicolo cieco. Invece c’è un editore tedesco di quotidiani e periodici, Axel Springer, che ha trovato la strada per cambiare, trasformarsi, adattarsi al mondo digitale. E crescere, prosperare, aprire il futuro. Forse anche a carta stampata e magazine.

Axel Springer ha presentato i conti dei primi tre mesi del 2013. Chiariamo subito che si tratta di una società più grande, per volume d’affari, di Mondadori, Rcs Mediagroup, Hearst Italia, Condé Nast Italia, Cairo Communication.

Parliamo di un editore internazionale che pubblica in tutta Europa, dalla Germania alla Repubblica Ceca, dalla Francia alla Polonia. Un gigante per dimensioni e attività. Presente da tempo nel digitale con i siti dei propri giornali, radio, tv, con applicazioni, con portali che nulla hanno a che fare con il giornalismo: siti di annunci di lavoro, case, articoli per la caccia e la pesca.

La tendenza che viene fuori in Axel è la crescita strepitosa del digitale, che ormai è la prima area aziendale per fatturati e guadagni. Ma la carta stampata non è in rosso, e anche se continua a veder decrescere i fatturati e le copie vendute, rimane ampiamente remunerativa: guadagna un sacco di soldi. C’è dunque un aggiustamento strutturale, un ridimensionamento, che però non è il cancellamento, la scomparsa. E il digitale non è un mondo alieno rispetto al giornalismo.

Ecco la parte tecnica.

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Quanti italiani usano il tablet? 3 milioni 660 mila – Accesso ai contenuti digitali a marzo 2013

Insieme ai dati sull’audience online a marzo e ai trend dei primi tre mesi 2013, pubblicati da Audiweb, è uscita la tabella che vedete qui sotto: fa vedere come gli italiani accedono a Internet. Cliccate per ingrandire.

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Nel primo trimestre 2013 il 68,2% delle famiglie italiane (14,8 milioni) dichiara di disporre di un accesso a Internet da casa.

Il 71,6% delle famiglie connesse, 10,5 milioni, dichiara di avere una connessione veloce.

A me interessano gli altri dati.

37,8 milioni di italiani dicono di accedere a internet da qualsiasi luogo e device.

Al primo posto c’è il computer di casa. Poi lo smartphone. Poi il computer del lavoro. Segue il computer dal luogo dove si studia. Infine le connessioni con tablet.

Gli italiani che usano Internet attraverso uno smartphone sono 17,9 milioni. Quelli che usano i tablet sono quasi 3 milioni 660 mila.

Il Punto: quante persone possono accedere ai contenuti digitali dei giornali. E come.

Prima Comunicazione: dati Audiweb primi 3 mesi del 2013.

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I periodici sono superati o modernissimi?

Sollecitato da una persona che legge il mio blog, prendo in mano un’intervista pubblicata da Italia Oggi.

Parla Giacomo Moletto, amministratore di Hearst Magazines Italia, dirigente di grande concretezza.

L’intervista prende le mosse dal rilancio di Gioia, femminile storico, nato nel 1934. Detto per inciso, pochi si rendono conto che alcuni periodici italiani hanno una grande storia. Per dire, Rcs Mediagroup vuole sbarazzarsi di Novella 2000, nata nel 1919, e di A – Anna, femminile che continua la storia di Annabella, creata nel 1933.

Torno in carreggiata. Moletto, che chiaramente vuole sostenere una delle proprie riviste in un momento in cui Condé Nast ripensa la formula di Vanity Fair, Mondadori rilancia Grazia, Donna Moderna, Tu Style, e Rcs Mediagroup mette in vendita, oppure chiude, 10 titoli, fa alcune riflessioni sulla modernità dei periodici.

Sostiene che «i magazine sono modernissimi, poiché una rivista la fuisci da sempre in maniera non lineare, saltando di qua e di là, ai segmenti del giornale che più ti interessano, tornando indietro. I magazine soffrono sui tablet proprio per questo: perché lì, invece, sei obbligato alla successione delle pagine, modalità alla quale un lettore di periodici non è abituato».

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Rcs Mediagroup potrebbe chiudere 10 testate entro il 30 giugno

Uno dei maggiori editori di periodici, Rcs Mediagroup, annuncia che potrebbe chiudere dieci testate entro il 30 giugno 2013. Si tratta dei giornali che la società ha tentato di vendere in blocco. Ora le riviste saranno messe sul mercato singolarmente, per un tentativo in extremis.

Se ne è parlato nei mesi scorsi. L’idea di cedere l’intero pacchetto di 10 testate non ha però avuto successo. Sui giornali si è letto che la “dote” chiesta dai potenziali acquirenti era troppo alta. Significa che qualche proposta è arrivata, ma il potenziale compratore chiedeva di essere pagato per prendere i giornali. Non era un compratore, dunque. E chiedeva a Rcs una somma troppo alta.

Le testate saranno ora poste in vendita anche singolarmente. Si tratta di Novella 2000, Visto, A, Max, Astra, Ok Salute, BravaCasa, l’Europeo, Yacht & Sail e il polo dell’enigmistica. I giornalisti coinvolti sono circa 90, ma non bisogna dimenticare altri 20 dipendenti.

La notizia è stata ampiamente ripresa e scopiazzata nel web. Consiglio di leggere il link al sito di Franco Abruzzo (ex presidente dell’Ordine della Lombardia e incontenibile aggregatore di notizie sul mondo del giornalismo), che riporta anche la cronaca della protesta dei giornalisti Rcs davanti a un teatro Milanese.

La notizia più inquietante è che in azienda si parli di cassa integrazione a zero ore per i dipendenti delle testate che dovessero essere chiuse. Una misura pesante. La cassa integrazione guadagni eroga assegni della stessa entità, da 959,22 euro lordi mensili a 1.152,90 euro lordi mensili, qualsiasi sia la professione o il lavoro, senza tenere conto degli stipendi realmente percepiti. Per i giornalisti questo comporta come minimo un dimezzamento della retribuzione.

Faccio un’annotazione: proprio ieri in un post parlavo di editori che vogliono separare il business dei giornali dalle altre attività, costituendo società autonome: in Rcs, invece, si va verso una vendita di testate e all’accorpamento di quelle che rimangono con i quotidiani del gruppo, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport, come si legge negli articoli ripresi da Franco Abruzzo. Seconda annotazione: nei giorni scorsi un altro grande editore di periodici, il maggiore in Italia, Mondadori, ha annunciato di voler avviare dall’1 giugno uno stato di crisi biennale. Sono previsti contratti di solidarietà e prepensionamenti per i giornalisti. Siamo nel pieno della stagione più buia per la carta stampata, in generale, e per i periodici in particolare.

Il Punto: come viene affrontata la crisi dei giornali italiani.

Lettera43: vendita o chiusura di dieci periodici di Rcs.

Franco Abruzzo: vendita o chiusura di dieci periodici di Rcs.

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«Good Corp, Crap Corp» – Parte buona e parte “cattiva” dei giornali

Un articolo dell’Economist riflette sul fenomeno delle media company, quelle con giornali, tv, cinema, che decidono di scorporare la carta stampata dalle altre attività. Isolandola, concentrandola, ipotizzando di venderla, tentando di rilanciarla.

Prima di dire cosa scrive l’Economist, vorrei riprendere un passaggio. Quello che riporta un pensiero fatto dagli analisti di Borsa quando si scorporano i giornali. Pensano che si formino due società:

(…) impending spin-offs of News Corp’s newspapers and Time Warner’s magazines have made journalists gloomy. The scribblers fret that they are being consigned to dead-end companies—a fear hardly soothed by analysts who refer in private to “Good Corp” (new media) and “Crap Corp” (print).

(…) gli spin-off dei quotidiani di News Corp’s e dei periodici di Time hanno depresso i giornalisti. Gli scribacchini temono di entrare in compagnie moribonde, per niente confortati in questo da analisti che, in privato, parlano di “Good Corp” (società buona: i New media digitali) e “Crap Corp” (società di cac..: la stampa).

Si tiene il cash, si butta il trash.

Ma l’articolo non è negativo. Anzi. Si racconta di come in altri ambiti la scissione dei business abbia fatto bene alle attività un tempo aggregate. Si racconta la storia di ITT, uno dei maggiori conglomerati al mondo, presente in aree diversissime, dal noleggio d’auto (Avis) alle banche (Wonder Bread) agli hotel (Sheraton). Di come la separazione abbia giovato a tutte le divisioni, con una maggiore valorizzazione del management, nuovi brand, più chiarezza nelle strategie. Anche la Borsa ha apprezzato, perché le attività sono più focalizzate.

Il Punto: come cambiano i grandi editori.

The Economist: l’arte dello spin-off.

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Le 40 migliori copertine degli ultimi 40 anni

La mia passione per le copertine delle riviste non ha limiti. L’altro giorno ho postato quelle premiate agli ASME, il premio ai migliori periodici del 2012. Dico qui che il magazine giudicato migliore rivista del 2012 è il New York, grazie anche alla copertina più bella dello scorso anno: una foto aerea di New York subito dopo il passaggio dell’uragano Sandy a fine ottobre.

Cover New mag 2012

Aggiungo ora le 40 migliori copertine degli ultimi 40 anni premiate nel 2005 alla American Magazine Conference. Le ho trovate nel sito di Mpa, the Association of Magazine Media, l’associazione dei periodici americani. Di seguito potete vedere le prime 20, dalla più bella in giù: si parte da una celebre copertina di Rolling Stone del 1981 con John Lennon e Yoko Ono. Ecco dunque le 40 Greatest Magazine Covers of the Last 40 Years. Per sapere di più di ciascuna immagine andate al link alla fine del post. Cliccate qui, invece, per vedere le altre 20 copertine, dal 21 al 40, che completano la selezione del premio.

RollingStone-Top40Covers-1VanityFair-Top40Covers-2Esquire-Top40Covers-3NewYorker-Top40Covers-4 Continua a leggere

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L’editore che vende un milione di copie digitali

L’iPad è arrivato nel gennaio del 2010, e supporta i periodici da metà 2011; da allora gli editori di riviste hanno trovato la strada del tablet: una prospettiva di sopravvivenza.

Per questo la notizia che Hearst, l’editore di Cosmopolitan, ha raggiunto un milione di abbonati alle proprie riviste negli Usa segna una data a suo modo storica. È tanto, è poco? Un milione di lettori equivale ad appena il 3% degli abbonati di Hearst. E l’obiettivo è stato centrato con tre mesi di ritardo rispetto alle attese.

Bicchiere mezzo pieno, bicchiere mezzo vuoto… Ma per il 2016 l’editore prevede di arrivare a tre milioni di lettori su tablet, il 10% della leadership. Non molto. E allora, prima di attaccarci al tablet, cerchiamo di tornare a vendere tanta, tanta carta stampata.

Macgasm: hearst 1 milione di abbonati su tablet.

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Morte dei blog o dei periodici? – Una riflessione di Andrew Sullivan

La polemica sulla fine dei blog. Ripresa da uno dei blogger più famosi, Andrew Sullivan. Un uomo, un brand. Ma la discussione ributta la palla nel terreno dei periodici. Sono i magazine quelli che più risentono della transizione al digitale dell’informazione.

Il post di Sullivan prende le mosse da un articolo di Marc Tracy per New Republic, rivista di politica e cultura con impronta liberal nata nel 1914. Il quale ragiona sulla morte dei blog, la certifica e porta come prova le trasformazioni del blog di Sullivan, The Dish.

We will still have blogs, of course, if only because the word is flexible enough to encompass a very wide range of publishing platforms: Basically, anything that contains a scrollable stream of posts is a “blog.” What we are losing is the personal blog and the themed blog. Less and less do readers have the patience for a certain writer or even certain subject matter.

Avremo ancora blog, naturalmente, perché il mondo è abbastanza capiente da contenere un’ampia gamma di piattaforme di pubblicazione. Di fatto, qualsiasi cosa contenga una pagina scorrevole con una successione di post è un “blog”. Quel che stiamo perdendo è il blog personale e il blog a tema. Sempre di meno i lettori hanno la pazienza di andarsi a leggere un certo autore o di seguire una certa materia, e solo quella.

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Il college di moda e design di Vogue – Nuove fonti di ricavo per i periodici

Condé Nast, la casa editrice americana di riviste patinate, ha aperto una scuola di moda a Londra. L’iscrizione ai corsi è costosissima. L’idea rientra in quella serie di attività che gli editori di giornali provano ad avviare per cercare nuove voci di guadagno. Le vendite dei periodici e la raccolta di pubblicità, infatti, stanno calando ovunque, dall’Italia agli Stati Uniti.

Il Condé Nast College of Fashion & Design, di cui parla il New York Magazine (guardate il link a fine post: c’è l’intervista al direttore della scuola), è stato aperto due settimane fa a Londra. Due i corsi attivi: il Vogue Fashion Certificate, della durata di dieci settimane, e il Vogue Fashion Foundation Diploma, che richiede un anno di frequenza.

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Le video serie nel web: è il trend dei periodici nel 2013

Se il vostro editore lancia serie web sui siti delle vostre testate ricordatevi che non è l’unico, ma si sta muovendo sulla strada tracciata dai periodici negli Stati Uniti. O magari ci si muove in contemporanea con i giornali americani, perché ormai è chiaro che gli editori della carta stampata hanno deciso di puntare su questi prodotti per attrarre visitatori nei loro spazi web e inserzionisti. Spiega l’articolo del New York Times riportato in link alla fine di questo post: l’anno scorso il trend nei periodici era il lancio di una versione per iPad. Quest’anno sono i video.

Lo dimostra la presentazione fatta mercoledì 1 maggio a New York da Condé Nast, l’editore dei giornali patinati di fascia alta come GQ, Vogue e Glamour. Sono stati mostrati 30 clip dimostrativi come assaggio di 30 nuovi show (potete vedere i trailer  nell’articolo di Ad Age alla fine di questo post). Le serie web sono simili, come concetto, alle serie televisive, magari perché compaiono gli stessi attori, nelle stesse situazioni, con sketch ogni volta nuovi. O perché viene trattato sempre lo stesso argomento. Esempi. Condé Nast ha presentato la serie Angry Nerd per la rivista Wired, quella di tecnologia. Single Life è per i lettori di Glamour. Casualties of the Gridiron è un documentario di GQ molto serie che parla delle lesioni fisiche dei giocatori di football americano della NFL. Elevator Makeover fa vedere come può cambiare il look di una ragazza nel tempo di una corsa in ascensore. In questo blog ne avevo già parlato a inizio marzo raccontando il lancio di serie video in Glamour e GQ.

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Le migliori copertine di giornali – ASME Best Cover Contest 2013

Le migliori copertine di periodici degli Stati Uniti del 2012 sono state premiate nelle scorse ore dall’Asme, The American Society of Magazine Editors, fondata nel 1963, la principale organizzazione di giornalisti di periodici negli Stati Uniti.

La prima copertina del post è la vincitrice della competizione e probabilmente l’avete già vista e ammirata: si tratta della copertina del New York Magazine del 12 novembre 2012, una veduta della metropoli, anzi, di Manhattan, il giorno dopo il passaggio dell’uragano Sandy. Iwan Baan, l’autore dello scatto, ha noleggiato un elicottero e ha sorvolato la metropoli. Come ha raccontato, in circa mezz’ora di volo Baan ha preso:

«between 2,000 and 2,500 shots — 80 percent of the shots are a blur, 10 percent are maybe useable, and 1 percent were really sharp».

«circa 2 mila, 2 mila e 500 scatti. L’80 per cento era sfocato, il 10 per cento passabile, solo l’uno per cento era utilizzabile».

Ma non mancate di ammirare le altre copertine, premiate in varie categorie, tutte inventate in modo pretestuoso per premiare il maggior numero di idee grafiche possibile (tipo: «la miglior copertina con il presidente Obama»).

Questa delle copertine, sta diventando una mia passione, come avrete visto con le copertine della rivista di hip hop Vibe, che raccontano 20 anni di America, e le copertine di un blog sudafricano, segnalate due settimane fa (non prive di un pizzico di pepe).

Mpa: Migliori copertine del 2012.


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Cover Bloomberg 1 2012

Cover NYT Magazine1 2012
 Cover Garden

Cover Rotarian 2012Cover Bazaar 2012 Cover Bloomberg 2Cover New YorkCover NYT Magazine2


Cover Bloomberg 3

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Il sito sulla vita delle attrici porno lesbo – Nuove idee per lo storytelling digitale

I Love Your Work è un sito interattivo, realizzato da un artista, con video che raccontano le storie di nove donne di New York City coinvolte nell’industria del porno lesbo femminista. Marginalità, vita quotidiana, idee sulla politica, il sesso, i generi, depressione.

Ne parlo nel mio blog per due motivi: 1) il documentario mostra nuove strade del racconto video nel digitale; 2) viene adottata un’originale modalità di pagamento per i prodotti narrativi nel web.

Il regista di I Love Your Work, Jonathan Harris, creatore della piattaforma di storytelling Cowbird e autore del racconto fotografico sperimentale The Whale Hunt (la caccia alla balena tra gli eschimesi, date un’occhiata!), ha ripreso la vita di nove ragazze e ha raccolto il materiale in un sito multimediale. Lo spiega nell’intervista che trovate in link alla fine di questo post. La storia di ogni donna copre un’intera giornata, 24 ore, e viene raccontata con una successione di frammenti video di dieci secondi ciascuno, ripresi a distanza di cinque minuti l’uno dall’altro. Nel sito è possibile vedere sei ore di montato.

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Quanto vendono i quotidiani americani – I dati al 31 marzo 2013

La diffusione media dei quotidiani statunitensi è diminuita su base annua dello 0,7%. Ma in questi numeri vengono spesso conteggiate le copie digitali date gratuitamente con l’abbonamento al giornale di carta. Gli abbonamenti solo digitali, invece, equivalgono al 19,3% delle diffusioni complessive, in crescita del 14,2%. Sono i dati rilasciati ieri dalla Alliance for Audited Media, l’Ads americana.

Primo quotidiano degli Usa si conferma il Wall Strett Journal con 2,4 milioni di copie, su del 12% rispetto al 31 marzo 2012.

Al secondo posto sale il New York Times, che vende 1,9 milioni di copie, in crescita del 18%. Il giornale ha le diffusioni digitali più alte con 1,1 milioni di copie.

Scivola al terzo posto il quotidiano di Gannett Co., lo Usa Today, che ha perso in un anno il 7,9% dei lettori e si ferma a 1,7 milioni di copie al giorno.

Qualche giorno fa erano usciti i conti del primo trimestre.

Wall Street Journal: quanto vendono i quotidiani Usa.

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Com’è la redazione giornalistica digitale (e il Feedback Loop)

Se siete giornalisti digitali, saltate questo post. Lo stesso se lavorate alla Stampa o al Sole24 Ore.

Lo schema che vedete qui sotto, infatti, per voi è vecchio.

Ma se siete dei comuni mortali, e il vostro tran tran si svolge in un qualsiasi periodico italiano, forse questo schema, tracciato prima del 2010 da Lewis DVorkin, mefistofelico e stimolante capo dei contenuti di Forbes, potrebbe farvi riflettere.

Come cambia il flusso del lavoro nelle redazioni, i processi, quali nuove figure devono affiancare i giornalisti, come viene valutato il nostro lavoro?

A tutte queste domande risponde Lewis DVorkin nell’articolo riportato in link.

Per ingrandire l’immagine basta cliccare sopra.

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È chiaro che il giornalista, oltre a scrivere in modo efficace e preciso, deve anche pagare grande attenzione alla scelta degli argomenti e all’interazione con il lettore. Per meglio centrare gli obiettivi di traffico nello staff giornalistico vengono inserite figure di specialisti di social media, analisti del traffico. A Forbes, anche figure del marketing.

E il giornalista, nel crescere come professionista, deve tenere conto del feed back di lettori e analisti. Ma, specifica DVorkin, la pioggia di dati, la visualizzazione dei risultati di traffico, aggiornati secondo per secondo, devono spingere a far meglio, non sono la legge del giornalista.

The data is to help inform their journalism, not rule it.

Forbes: come cambiano le redazioni dei giornali.

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