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Copia, Aggiungi, Trasforma: 3 Approcci Al Giornalismo Digitale

Sull’onda dell’Innovation Report del New York Times, documento riservato diventato di pubblico dominio, fioriscono ragionamenti su come i giornali devono condurre la transizione al digitale. Journalism.co.uk spiega che finora si sono viste tre strade: additiva, conservativa, trasformativa. I risultati sono diseguali

 

Additiva: significa che il prodotto di carta viene riproposto sul sito web, nella app per tablet, sullo smartphone con arricchimenti multimediali. Dal video all’infografica, dall’animazione alla timeline… Il vantato digital-first è solo una facciata.

Conservativa: è il mantra della “copia replica”. Sì, riproporre il giornale cartaceo tale e quale nel digitale è una tattica finora perdente. Le copie replica per app raccolgono appena il 3% dei lettori negli Stati Uniti. In Italia questa versione viene … regalata in abbonamento. Il limite: non dai al lettore un’esperienza di lettura nuova e stimolante.

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15 Segnali Di Vita Del Giornalismo Che Cambia

Le tendenze nel giornalismo. Legate allo sviluppo digitale. Dal lancio di startup alla pubblicità nativa, dai video alle app, dagli e-book ai compensi legati al traffico dei siti

Ne parla il responsabile della redazione digitale di Forbes, la media company nota non solo per il periodico economico e finanziario ma anche per le attività online, considerate un modello del next journalism: il nuovo che avanza.

Lewis DVorkin, con il consueto sarcasmo indirizzato contro i giornalisti, individua 15 blips, 15 puntini sullo schermo del (suo) radar del giornalismo.

In sintesi, vediamo quali sono e perché. Ma conviene leggere per intero l’articolo di DVorkin.

1) STARTUP: i tycoon del digitale iniziano a investire in startup votate al giornalismo.

2) NATIVE ADVERTISING: il pubbliredazionale, in forma rivista e corretta per il digitale, sta prendendo piede anche nei siti dei media tradizionali. Tra gli ultimi, il New York Times.

3) PIATTAFORME: da Medium a Tumblr, fanno vedere come sarà la comunicazione tutta a base di immagini e grafica della prossima generazione di lettori.

4) GIORNALISMO LONG-FORM: una parola del gergo internettiano, molto di moda, che indica articoli lunghi più di 3000 battute, comuni nei media tradizionali, diventati una formula nobilitante per quei siti che vogliono entrare nel giornalismo di qualità.

5) VERTICALI: si è scoperto che nel digitale c’è posto per siti d’informazione o ecosistemi giornalistici che si rivolgono a comunità circoscritte di utenti, nicchie di lettori diverse da quelle dei brand dal taglio generalista.

6) DATA: parola magica, soprattutto nella variante “big data”. Internet è tutto dati, a partire dal modo in cui si misura il successo di un articolo o una pubblicità online. Presto, dice DVorkin, sentiremo parlar meno di pageview o utenti unici e molto più di viewability: quante volte una pubblicità entra davvero nello spettro visivo di chi legge.

7) APP: la grande promessa per il futuro dei periodici sta deludendo le attese. Ma ci sono strategie per dare alla lettura dei giornali su tablet una seconda chance.

8) VIDEO: tutti gli editori della carta stampata corrono verso la produzione e distribuzione di video sulle piattaforme digitali dei loro brand. Ma per il momento i lettori sembrano preferire il testo scritto, più facile da scorrere, valutare, selezionare.

9) E-BOOK: una bella fonte di guadagno per i giornalisti che hanno trovato temi d’attualità di grande interesse, un ferro caldo da battere sul momento.

10) COMMENTI: vengono inventati sistemi sempre nuovi per dare spazio ai commenti dei lettori. Perché offrono un aggancio alla monetizzazione: tradurre le pagine viste e la partecipazione dell’utente in moneta sonante per i pubblicitari.

11) MOBILE: la pubblicità più basic, il banner (il vecchio annuncio), rende poco, ma si adatta alla versione per smartphone di tanti siti di news. Una risorsa da non perdere.

12) EVENTI: organizzati dai giornali, usando il loro brand, per guadagnare notorietà, conquistare pubblico, aumentare i ricavi.

13) NUOVA PUBBLICITÀ: anziché chiedere al lettore di pagare per accedere ai contenuti di un sito giornalistico, gli si chiede di pazientare un momento e guardare un video pubblicitario. Una formula, molto vista in Italia, che fa pensare al modello economico della tv commerciale.

14) NEWSLETTER: ci sono utenti disposti a pagare per newsletter di approfondimento su temi sensibili e rilevanti, soprattutto in ambito finanziario.

15) INCENTIVI: i giornalisti che aderiscono a “compensation program” vengono in parte premiati e retribuiti sulla base del traffico generato, dei lettori conquistati. Un tema spinoso, controverso, che vede Forbes schierato tra i “cattivi”. Sul versante dei “buoni” ci sono invece giornalisti (ed editori) che continuano a credere che chi scrive non deve essere condizionato dai risultati di traffico. Anzi, non dovrebbe neppure esserne messo a conoscenza. Per la qualità dell’informazione, non per restare attaccati a privilegi.

Futuro dei Periodici

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Personale Ed Emotivo: Come Il Digitale Cambia Le Pratiche Giornalistiche

Il digitale sta cambiando il modo di fare i giornalisti. Il compito di informare inizia a far coppia con il coinvolgimento del lettore. Si adegua di conseguenza il linguaggio. Che diventa personale ed emotivo

Come le organizzazioni giornalistiche e i giornalisti stanno cambiando per l’arrivo del digitale: si è discusso di «Pratiche giornalistiche emergenti nell’età digitale» al 15th International Symposium for Online Journalism, che si è tenuto all’Austin campus dell’Università del Texas.

Tra le tante cose emerse, mi hanno colpito due aspetti.

Il primo riguarda l’uso ormai massiccio dei social media da parte dei professionisti dell’informazione.

Sebbene le piattaforme digitali stiano danneggiando l’industria del settore, è sempre più chiaro che l’informazione è diventata più accessibile, che il consumo è aumentato, e che di questo possono trarre vantaggio singoli giornalisti che riescono a raggiungere un pubblico ampio.

In particolare, si osserva il tentativo di costruire attraverso gli strumenti digitali un’immagine pubblica di se stessi. E questo lo si può fare sia tenendo webinars, sia twittando e riprendendo il lavoro dei colleghi, sia parlando della propria vita personale e professionale.

È il tema del personal branding e della personalizzazione dei canali d’informazione nel digitale.

Al simposio dell’Università del Texas si è spiegato che questo avviene soprattutto attraverso i social media. Twitter viene usato per far vedere che si è competenti e per guadagnare in autorevolezza.

Cambia anche il linguaggio, che diventa più personale e attento a suscitare emozioni.

In questo è fondamentale l’arrivo e il diffondersi dei tablet. Questo device mobile, è emerso, spalanca la porta del rapporto diretto con il pubblico.

Uno tra tanti modi per coinvolgere i lettori è l’infotainment, come si è spiegato riportando esempi presi da due quotidiani brasiliani,  O Globo a Mais e Estadão Noite,

«Infotainment is no longer as taboo as it used to be for many newspapers».

Naturalmente non dovrebbe essere l’ingrediente principale del piatto.

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Anticipazioni Sulle Innovazioni Nei Magazine 2014

Le strategie globali di Condé Nast, i cambiamenti nella pubblicità dei periodici, il network internazionale di Grazia. Ne parla Magazine World, la pubblicazione della Federazione mondiale dei magazine media

Ma l’articolo di maggiore interesse riguarda le novità per i periodici nel 2014, anticipazione del rapporto Magazine Media World Report 2014 di Fipp sull’innovazione in uscita a marzo: native advertising, video, big data, mobile.

Ecco il link a una pubblicazione stimolante, seppur voce ufficiale di questo mondo.

Magazine World.

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Personal Franchise Model Nel giornalismo Digitale

Siti d’informazione costruiti intorno a personalità carismatiche. Giornalisti che diventano il marchio di una testata. Se ne parla nel giorno del lancio di nuovi periodici digitali negli Stati Uniti

Qualche ora fa è stato presentato il primo dei magazine digitali di First Look Media, la “casa editrice” del papà di eBay.

Il giornale si chiama Intercept, è un “verticale” che si occupa di sicurezza, privacy ed è ritagliato intorno alla figura del giornalista che lo dirige, Glenn Greenwald, ex Washington Post.

Non sarà la prima creazione di questo tipo per First Look Media. Yahoo! sta seguendo la stessa strada.

E sulla stampa americana si dà spazio alla lezione di un professore di giornalismo, Jay Rosen, su quello che lui chiama “personal franchise model” applicato ai siti. Un esempio che tutti conosciamo: Andrew Sullivan.

Il personal franchise model è questo:

Caratteristiche

Redazioni costruite intorno a figure carismatiche di giornalisti che hanno una voce unica e un seguito online.

Il controllo editoriale è del fondatore, anche se la proprietà passa di mano.

Il modello si contrappone a quello istituzionalizzato degli editori tradizionali, dove le persone vanno e vengono mentre restano invariati i brand, i prodotti, il logo.

La testata non sopravvive senza il suo creatore.

L’approccio è di nicchia, riguarda un pubblico circoscritto. Non si danno news generaliste per tutti i gusti e palati.

Il modello economico è estremamente vario e unico per ogni esperienza.

Cosa lo ha fatto nascere

Il pubblico si lega più facilmente a una persona, che a un brand.

Con una figura carismatica, è facile sapere se c’è qualcosa di nuovo da leggere e seguire.

Nel tempo, è diventato più facile aver fiducia nella persona che nell’istituzione.

Nelle grandi aziende c’è meno propensione al rischio e all’innovazione, rispetto alle inizialmente individuali.

Le divisioni tra i generi del giornalismo, le convenzioni fruste, le barriere artificiali tra news e opinioni, le strutture piramidali, la debolezza tecnologica sono fonte di frustrazione per i giornalisti di maggior talento.

continua… leggete il link al professor Rosen!

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Prescrizioni Per Sopravvivere Nel Digitale

Il transformation director del gruppo editoriale britannico Trinity Mirror, il maggiore del Paese, spiega le mosse per muoversi con successo nel giornalismo digitale.

Questo articolo di Journalism.co.uk aiuta a tirar fuori e rendere evidenti regole, concetti, princìpi che tutti noi abbiamo in qualche modo in testa. Il pregio sta nella chiarezza, non nella novità.

Si spiega che ogni sito deve essere mobile first. Non digital first. La notizia devi poterla leggere in modo agevole sul tablet e lo smartphone. Poi si passa alla lettura su computer (in declino).

Bisogna avere una strategia di crescita multipiattaforma: non sei più, soltanto, un giornale, una tv, una radio.

Ok, lo sappiamo, il contenuto è king: è quel che ci distingue e ci tiene in vita. Ma se non riesci a creare contenuti differenti per le diverse piattaforme sei morto.

E’ necessario avere un’organizzazione integrata: vietato tenere separati carta e digitale.

 

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Perché Tutti Creano Siti Di News

La corsa delle società nate del digitale verso i contenuti giornalistici. Il lancio di siti di news che fanno concorrenza a quotidiani e periodici. Un esperto di media analizza il fenomeno

E’ un post di Ken Doctor su Nieman Lab, punto di riferimento per chi tiene d’occhio le novità del giornalismo nel digitale.

Il superconsulente analizza in dettaglio la situazione. Le compagnie che hanno sviluppato piattaforme digitali fanno a gara nel lanciare iniziative editoriali. Creando nuovi brand e testate verticali. Assumendo giornalisti con un nome.

Ma un punto sottolineato da Ken Doctor è quello della sostenibilità economica: un sito di news può stare in piedi.

Può stare in piedi se trova un pubblico di lettori ben circoscritto, per quanto limitato nella dimensione: una nicchia.

Può nutrirsi di pubblicità nativa, diventata competitiva rispetto a quella dei banner.

Può creare redazioni piccole ma con possibilità di ampliarsi.

«Business models are maturing. New publishers are finding enough niches tolargely pay smaller-but-expanding staffs of journalists — if they can create large enough audiences. They are also seeing that native advertising, well done by BuzzFeed and Atlantic Media, for instance, offers a way to compete with programmatic advertising. Premium (Politico Pro) and events (Business Insider) strategies are giving the new publishers the sense they don’t have to wholly rely on advertising».

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La Corsa Ai Contenuti: Facebook Entra Nelle News

Indiscrezioni. Facebook lancerà una app di news, un aggregatore curato da giornalisti: una serie di canali monotematici (verticali, in gergo) che raccoglierebbero, si dice, articoli e contenuti di qualità messi in rete dai quotidiani e dai magazine. Si dovrebbe chiamare Paper, e viene descritto come un aggregatore “intelligente”, non affidato a un algoritmo, a un automatismo, ma alla capacità di selezione e confezionamento di persone esperte.

Segue breve e incompleta cronologia delle società tecnologiche entrate nel… giornalismo:

Il patron di Amazon, Jeff Bezos, ha comprato l’estate scorsa il Washington Post.

Yahoo! è entrato a gennaio nell’informazione e ha lanciato, tra l’altro, alcuni magazine digitali. Assunti giornalisti con curriculum di tutto riguardo, ad esempio l’ex columnist di tecnologia del sito del New York Times.

Il fondatore di Ebay ha annunciato lunedì di voler aprire alcuni magazine digitali; a fine 2013 aveva fondato la società che li pubblicherà, First Media, con un investimento di 50 milioni di euro.

Loro si danno da fare. C’è invece chi ha il pane e non ha i denti per mangiarlo.

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Perché Il Digitale Ti Allunga La Vita: Fenomeno Multihomers

I giornali sono in declino. Ma le testate con una presenza digitale riescono ad attrarre più pubblicità. Come spiega uno studio dell’università di Toronto. Che aiuta a capire i cambiamenti nel mondo della pubblicità e di chi la gestisce. Anche in Italia

Sono notizie che sembrano la scoperta dell’acqua calda. Se invece ci rifletti sopra, con umiltà, porti a casa un pezzetto di conoscenza. Acquisisci una chiave di lettura che ti aiuta a capire perché una concessionaria italiana di pubblicità prende anche la raccolta sulle radio, le tv. O compra riviste che altrimenti chiuderebbero.

La ricerca dell’università di Toronto Scarborough (condotta sulla stampa tedesca, con la collaborazione di docenti europei dell’università di Zurigo) spiega fino in fondo le conseguenze, per la pubblicità, di avere a che fare con lettori che si cibano di contenuti su più piattaforme: la loro “dieta mediatica” (come dicono gli esperti) include la lettura del giornale di carta, navigazione e ricerca su Internet, social media, tablet e tanto smartphone. Si chiamano “multihomers” (ma in italiano la esse del plurale va cassata, giusto?).

L’attenzione del lettore/consumatore è parcellizzata. La comunicazione delle aziende, la pubblicità, non può più avvenire solo su un canale. La carta non basta, ma neppure il digitale da solo. Bisogna seguire il potenziale cliente nei suoi spostamenti e conquistare ovunque la sua attenzione. Non c’è dunque il “passaggio al digitale”, ma siamo su un terreno misto.

Torniamo ai multihomer. Tracciarli non è facile. I giornali che ci riescono, che selezionano un pubblico di lettori con interessi molto focalizzati e omogenei, e presenti su carta ma anche sulle estensioni in radio, tv e digitale, possono vendere a un prezzo più alto gli “spazi” pubblicitari. Possiedono qualcosa di grande valore.

Per questo è importante sviluppare una presenza a tutto tondo. Non solo perché si perdono lettori e copie dei giornali.

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Da Studiare: Axel Springer Vende i Giornali nella Repubblica Ceca

Una notizia che riporto perché: 1) fa vedere come ragiona un grande editore di giornali che punta davvero sul digitale; 2) illustra quel processo di focalizzazione “solo” su certe attività, quell’azione di selezione, che vediamo anche nei periodici.

La notizia: Ringier-Axel Springer Media, società che ha per soci un editore svizzero e il gigante tedesco dei media, vende i suoi giornali nella Repubblica Ceca a due businessman locali per 170 milioni di euro.

La società è una delle più grandi del Paese: passano di mano, dunque, due quotidiani tabloid, un quotidiano sportivo, una serie di periodici.

La motivazione: la società ha scelto di concentrare forze e risorse nei media di proprietà in Polonia, Serbia, Slovacchia, dove possiede una posizione di leadership nei media digitali.

Insegnamenti (?). 1) Il digitale detta la direzione di investimenti e sviluppo; 2) non c’è una fuga dai giornali, ma si investe là dove si possiede una posizione dominante; 3) giornali sì, ma solo in un’ottica di sviluppo digitale; 4) raramente si chiudono giornali, più spesso vengono ceduti ad altri editori, piccoli, meno ricchi, concentrati su nicchie o mercati circoscritti: meno giornalisti in redazione, meno pagati, stracarichi di lavoro (ma con un posto).

Axel Springer è il primo, grande editore europeo, proprietario di importanti quotidiani e periodici, ad aver sviluppato con successo il digitale. Il fatturato digitale è il 40% di quello complessivo.

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La Crisi di Identità di Time (e il Nuovo Sito del Giornale)

Come cambia Time nel digitale: breaking news, uscita di veterani, assunzione di giovani, riorganizzazione della redazione. Ma i critici dicono che il newsmagazine più prestigioso d’America sta sbagliando strada

Una testata resistente. A differenza di Newsweek e Us News & World Report, Time è ancora una voce ascoltata. Con 3 milioni di abbonati nel mondo. Evidentemente è utile qualcuno che sappia selezionare e approfondire le notizie della settimana. Ma le diffusioni sono in calo e la pubblicità è scesa del 4,7% nei 9 mesi del 2013. Non si sa se la testata sia ancora in attivo. Rispetto ai bei tempi andati, con internet la concorrenza è aumentata. Non c’è più il monopolio dell’informazione, sono cadute le alte barriere d’accesso al giornalismo,

Investimento nel digitale. Time si prepara a investire nel sito del giornale, considerato arretrato nel mondo dei periodici:  appena 13 milioni di utenti unici da desktop in ottobre; Huffington Post ne ha contati 61 milioni. Più foto di grandi dimensioni, video, storie.

Un direttore scafato. Un punto di forza è il nuovo direttore, nominato in settembre: Nancy Gibbs, giornalista di punta della testata, 100 storie di copertina alle spalle. Non schiava del narcisismo, ha grandi capacità manageriali e sa delegare ai capi delle sezioni, intervenendo solo con pochi cambiamenti e correzioni in fase di chiusura.

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Come si Costruisce una Storia Multimediale

Cos’è il giornalismo multimediale, come si costruisce una storia nel digitale, come e perché assegnare a media diversi le varie parti del racconto. Lo spiega l’università di Berkeley

GIORNALISMO DIGITALE Oltre a The Russia Left Behind e ad altri esempi di multimedia storytelling di cui si è parlato in questo blog, penso alle storie di giocatori di football di un quotidiano australiano e al racconto della New York sotterranea di Vanity Fair: sono nel blog del designer Mario Garcia. Per la gioia dei nostri occhi. Mi è venuta voglia di capire più a fondo come si racconta una storia nel digitale. E mi sono imbattuto in uno strumento utilissimo, in lingua inglese.

COS’È MULTIMEDIALE Riprendo un tutorial della UC Berkeley Graduate School of Journalism. Consiglio a tutti di visitare il sito, ricco di strumenti pratici e teorici sul giornalismo digitale.

Una storia giornalistica multimediale non è solo un racconto a più dimensioni: testo, video, audio, foto, grafica, animazione, mappe, interattività.
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Come si Diventa il Primo Editore Digitale Europeo

Axel Springer, società tedesca che pubblica giornali, è il primo grande editore europeo nei digital media. Rimangono al primo posto i contenuti giornalistici a pagamento. Ma il peso della stampa viene circoscritto. E cresce in modo spettacolare il digitale. Che solo in parte è sinonimo di giornalismo. Un percorso che altre società potrebbero seguire

CRESCITA DIGITALE Una transizione da studiare bene. Aiuta a immaginare il futuro delle nostre case editrici di periodici e quotidiani. Axel Springer, editore tedesco presente in molti paesi europei, sembra avere trovato la strada per uscire dalla crisi. È tra le società con la più alta quota di fatturato che proviene dal digitale: a fine settembre, su 100 euro incassati, 40 euro venivano generati dai media digitali. Che contribuiscono al 46% degli utili.

LA LINEA In questi mesi la società sta cambiando forma e politica degli investimenti. La strategia consiste nello sviluppo di contenuti giornalistici a pagamento, nelle acquisizioni di attività digitali non giornalistiche, nella riduzione del peso della stampa, là dove non è più fondamentale per il Gruppo. Come avvenuto a luglio con la cessione dei quotidiani regionali, delle guide tv, dei femminili a un altro editore tedesco.

NUOVA IDENTITÀ Con il tempo cambia il mix delle attività. Il digitale, nei primi 9 mesi del 2013, ha dato ricavi per 959 milioni di euro. I quotidiani del Gruppo per 781 milioni di euro. I periodici per 331 milioni di euro. Il digitale cresce del 6,6%, i quotidiani calano del 6,6%, i periodici scendono del 2,4%.

Ma cosa vuol dire digitale? Come cambia la natura di un editore? E lo è ancora?

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Come il Boss di Google Vede il Futuro dei Periodici – The American Magazine Conference

Parlano di giornali di carta i mogul di Internet. Il Ceo di Google, uno dei fondatori di Facebook. Sul futuro dei periodici sono più ottimisti di chi ci lavora. E aiutano a vedere i punti di forza degli Old media nell’era dei New Media

I MOGUL DEL WEB All’American Magazine Conference dei giorni scorsi a Manhattan hanno parlato del futuro dei periodici i nomi più in vista del Web.

I PERIODICI HANNO FUTURO Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook e proprietario del mensile liberal The New Republic (acquistato nel 2012: in anticipo di un anno su Jeff Bezos), pronostica lunga vita per la carta stampata.

I periodici sono l’unione perfetta di contenuti ben realizzati e tagliati su misura del lettore. Un magazine di carta o su tablet presenta una sequenza di articoli, come i capitoli di un libro, ma gli articoli possono comparire separatamente su Internet, come le canzoni di un album musicale. «Cosa più complicata per i quotidiani».

Magazines, Hughes argued before the crowd that had gathered… are the perfect hybrid of a curated experience and a customizable one. A print or tablet magazine offers a sequence of articles, like chapters in a book, but its articles can stand discretely on the Internet, like songs from an album. «That combination bodes well particularly for magazines. Less so for newspapers».

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Riviste? No, “Multimedia Megabrands” – 10 Periodici da Tenere d’Occhio

Non chiamatele riviste. Sono Multimedia Megabrand. Presenti in America, Europa, Asia. Con edizioni stampate, siti, app. Attivi nel giornalismo e nella pubblicità, nelle sponsorizzazioni e negli eventi. Che vedono nel 2013 il miglior anno di sempre

10 GIORNALI D’ORO La rivista americana Advertising Age ha diffuso il 21 ottobre la sua Magazine A-List, la classifica dei 10 migliori periodici statunitensi della categoria glossy: patinati. Riporto più sotto le testate e il link all’articolo da cui prendo spunto.

Il passaggio che voglio estrarre riguarda il modo in cui vengono etichettati questi giornali. Ri-concettualizzati. Perché il punto a cui voglio arrivare è che questi periodici non sono più soltanto periodici, se oggi hanno ancora un senso.

Riviste che non sono più soltanto riviste di successo: contrariamente a quel che si può pensare, per alcuni di questi giornali il 2013 è il miglior anno di sempre, per pubblicità incamerata ed esposizione del brand (notorietà).

Non solo questi giornali di carta si sono sviluppati in tutte le dimensioni del digitale, con siti ed edizioni per tablet a volte di pregio.

NOME IN CODICE: MEGABRAND No, deve cambiare il modo di pensare le società che pubblicano questi giornali. Leggo:

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Multipiattaforma – Cos’è la Rivoluzione per Giornali e Pubblicità

La trasformazione dei periodici, diventati prodotti presenti su più piattaforme. La ridefinizione dei contenuti su tutti i canali nuovi. La sfida della standardizzazione delle metriche per misurare il successo nel digitale. Sono i punti toccati in un’intervista istituzionale ma piena di spunti stimolanti. Il concetto centrale: capire che cosa significa davvero essere giornali multipiattaforma

Parla Mary Berner, Ceo dell’Associazione dei Magazine Media americani, veterana dei magazine, ex Reader’s Digest e Condé Nast. Un’intervista istituzionale ma feconda. Che riprendo e reinvento nella forma. Apoditticamente (ma per gioco). Il concetto su cui tutto ruota è: multipiattaforma.

I CONTENUTI

Multipiattaforma: quanto lavoro in più per i periodici.

Multipiattaforma: devi offrire un grande prodotto non solo sulla carta, ma su tablet, sito web, smartphone. E sei anche in tv, radio, YouTube, Facebook…

Multipiattaforma: la sfida è farsi trovare dai lettori, avere un posto in prima fila nelle edicole digitali, non essere sepolti dai contenuti su internet, farsi acquistare.

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Giornalismo À La Carte – Periodici e Paywall

I siti dei periodici, a differenza dei quotidiani, non sono a pagamento (con eccezioni). Eppure la carta non basta. Si cercano modi alternativi per ricavare denaro nel digitale. Con singoli articoli in vendita, pezzi di copertina dati gratis in cambio di video pubblicitari da guardare, edizioni speciali. Perché i magazine non possono vivere solo di copie per tablet. Anche il web vuole la sua parte (smiley).

SE NASCE THE INTERNATIONAL NEW YORK TIMES Si torna a parlare con eccitazione dei siti giornalistici a pagamento. A smuovere le acque la notizia che il New York Times ha grandi progetti nel digitale. Ieri i vertici del quotidiano più famoso del pianeta hanno annunciato la chiusura della testata gemella, e di proprietà, The International Herald Tribune, fondata nel 1887 come giornale americano che parla al mondo intero. Sacrificata perché rischiava di fare ombra alla espansione globale della testata principale, quel NYT nato come giornale di New York City, diventato da non molto quotidiano nazionale. E ora lanciato nella dimensione internazionale e digitale con il nome di: The International New York Times (sulla logica del power brand, leggete qui). Attraverso la versione per tablet e un sito dove si possono leggere gratis solo un certo numero di articoli. Poi si paga.

PERIODICI SENZA PAYWALL Ma nei periodici c’è poco da far pagare. C’è poco da erigere paywall. Settimanali e mensili non hanno, per definizione, breaking news da vendere (sempre che non si tratti di testate specializzate come l’Economist). La specializzazione è riservata ad alcuni magazine, gli altri sono generalisti.

Come si possono aumentare i ricavi, visto che le edizioni per tablet e mobile faticano, per il momento, a decollare?

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Qualità del Giornalismo nel Web (e il Muro di Berlino tra Carta e Digitale)

Il Muro di Berlino: questa espressione veniva usata nella redazione americana di Wired per indicare l’invisibile ma palpabile distanza qualitativa e di prestigio tra redazione del giornale che usciva in edicola e redazione digitale dello stesso brand. Ma la segregazione sembra superata. Danneggiava entrambi. La qualità della stampa e la velocità dei new media finalmente si incontrano

QUALITÀ DIGITALE? Riprendo alcuni ragionamenti di un bellissimo pezzo uscito ieri su sito web di The Atlantic. Lo firma Bob Cohn, responsabile delle attività digitali della celebre testata.

Parte dalla constatazione che fino a poco tempo fa veniva facile contrapporre il buon giornalismo della carta stampata, accurato, verificato, ben scritto, ben passato, levigato nella grafica. E il giornalismo digitale, veloce, irruento, non curatissimo nella forma ma rapido nel correggere i propri errori. Il web è così, si diceva.

Fino a soli 5 anni fa il web era quasi unicamente testo. Chilometri e chilometri di parole scritte, “piombo”, privo di quella sapienza grafica accumulata dalla stampa nei decenni.

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Il Monopolio dell’Attenzione

Mi piace questa espressione.

Il monopolio dell’attenzione.

I giornalisti l’avevano. E ora l’hanno perduto, il monopolio.

Per poter diffondere una notizia, un pensiero, dovevi portarlo alla gente.

Per portarlo alla gente dovevi distribuirlo in edicola, dovevi metterlo on air.

Per distribuirlo in edicola dovevi avere un distributore e, prima, dovevi stamparlo; per metterlo on air avevi bisogno di una stazione di trasmissione e, prima, di uno studio con microfoni e telecamere.

Era un percorso lungo, alla portata di pochi.
Per questo i giornalisti se la tiravano tanto. Si muovevano in una dimensione esclusiva. Nessuno poteva insidiarli. Avevano il dono di un dio.

Ora il monopolio della attenzione è caduto.

Ho trovato questa espressione in un’intervista a un guru europeo della comunicazione, intervista fatta da una giornalista indiana per una testata indiana.

Da lontano si vedono meglio le cose. Chi sa molto, spiega le cose in modo semplice. Le cose che contano davvero, sono poche.

Gerd Leonhard spiega che i giornali, prima del digitale, detenevano il monopolio dell’attenzione e per questo avevano creato la “bolla dei media convenzionali“.
Una bolla: come la bolla di Internet nel 2000, come la bolla dei mutui del 2007.

Nell’intervista ci sono altri concetti non nuovi ma espressi bene. Stiamo assistendo alla convergenza del broadcast e del broadband. E al passaggio dall’informazione digitale gratuita e di bassa qualità a quella a pagamento e di qualità. Ma il modello economico che ha tenuto in piedi per decenni la stampa era fondato sul monopolio dell’attenzione, e quello è andato in mille pezzi. Per questo non torneremo alla situazione precedente.

Governance Now: intervista a Gerd Leonhard.

Futuro dei Periodici

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Il modello del New York Times, i periodici, i media

Tre pennellate nell’acquerello di come cambiano periodici e media.

Riprendo tre passaggi di un intervento di Ken Doctor, consulente americano che si occupa dei media, uscito su Nieman Journalism Lab, sito che per me e’ un punto di riferimento sui cambiamenti nel giornalismo (e’ un laboratorio legato alla universita’ di Harvard).

Parliamo di periodici e media, ma Ken Doctor analizza i risultati semestrali del New York Times, i ricavi, le novita’ in quella che e’ una delle testate che reggono la fiaccola del passaggio progressivo al digitale. Modello di business cercasi, come dicono gli esperti; e il Times ci sta provando, a trovare un modo per tenere in piedi il giornalismo.

Torniamo a noi.

Prima pennellata. Il New York Times cerca nuovi modi per fare ricavi stabilendo alleanze con societa’ che forniscono contenuti, thid-party, come si dice in gergo. Contenuti che non vengono prodotti dalla redazione ma comprati gia’ confezionati allo scopo di arricchire l’offerta digitale e del sito. Non e’ crescita organica. Per cui il Corriere della Sera o una rivista italiana non fa tutto in casa: compra all’esterno, stringe alleanze. Un futuro promettente per service e produzioni video. O intese tra gruppi editoriali della carta e gruppi televisivi: pronto?! In Italia ci sono per caso editori che possiedono giornali e tv, o che hanno appena fatto acquisti in tal senso?

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22 cose da tenere a mente se avete a cuore il giornalismo

Le trasformazioni del giornalismo nel passaggio al digitale, le idiosincrasie dei giornalisti in una fase di incertezza e paura, le sfide per gli editori, i rischi che tutto ci crolli addosso…

Di questo e di molto altro parlano 22 frasi raccolte dal giornalista David Bauer agli incontri del GEN News Summit 2013 che si è tenuto nei giorni scorsi a Parigi (segnalate su Facebook da Claudio Giua del Gruppo Espresso). Bauer è digital strategist del quotidiano online svizzero in lingua tedesca Tageswoche.

Riporto solo 9 delle 22 sentenze. Leggete le altre nel post in inglese di Bauer.

Conosci bene, e quanto, il tuo pubblico?

Poiché le technology company sono diventate media company, le media company devono diventare technology company.

Parliamo troppo degli strumenti e troppo poco del cambiamento culturale?

Il chi, cosa, quando, hanno perso valore. Il giornalismo deve occupare del perché, del come e del dopo.

Il contenuto oggi è come l’acqua. Lo trovi ovunque. Il valore risiede nel confezionamento.

Le molte nuove facce di quella unità un tempo conosciuta come: l’articolo.

Più gente paga per i contenuti giornalistici nel 2012 rispetto al 2013. Ma ancora troppo poca.

Il passato non garantisce il nostro futuro. Senza correre rischi, ciascun dollaro guadagnato si trasformerà in una perdita di 0,56 dollari entro cinque anni.

Lo smartphone è la tua redazione.

22 cose da tenere a mente se avete a cuore il giornalismo.

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La differenza tra edizione digitale, sito web e app nei giornali

Ho ancora le idee confuse sulla differenza tra sito web di un giornale, app per mobile ed edizione digitale dello stesso. Quali i vantaggi dell’uno o dell’altro per un editore, quando puntare su uno in particolare?

Posso dire che un breve articolo di Folio Mag mi ha aiutato a vederci più chiaro. Guardate anche voi.

Per dire, l’app (quel software del giornale che carichiamo sullo smartphone o il tablet e poi vediamo come un’icona) diventa conveniente, nonostante abbia un costo alto di creazione e manutenzione, perché presuppone un uso più frequente da parte del lettore. Solo i più fedeli la scaricano sul proprio smartphone o tablet. Ma garantiranno un maggiore coinvolgimento nell’esperienza di lettura, con più tempo passato sulle pagine del giornale e maggiore partecipazione alla condivisione dei contenuti e al commento.

L’edizione digitale è, anche negli Stati Uniti, una replica della testata di carta, ma non so se questo consolerà chi sogna prodotti arricchiti. Piace ai pubblicitari, che infatti sono disposti a pagare le inserzioni tanto quanto la pubblicità sull’edizione di carta (sappiamo che la carta spunta prezzi più alti, il sito molto meno, lo smartphone pochissimo). Insomma, sull’edizione digitale si può riproporre il modello di business della carta, e i lettori spendono circa 43 minuti per ogni sessione di lettura. Decisamente più di quanto avvenga sul sito e nelle app.

Interessante anche riflettere sull’equilibrio che l’editore deve trovare tra costi e benefici. Questo è un ragionamento maturo, non il volo della fantasia a immaginare edizioni per iPad che nessun lettore può ripagare.

Buona lettura!

Folio: differenza tra app, digital edition, sito web.

Folio

Folio

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Come Hearst Usa sta aprendo una nuova strada nel digitale dei periodici

Un milioni di lettori solo digitali, non molti ma sufficienti per costruire una strategia di sviluppo delle testate di Hearst Usa nel territorio ancora inesplorato dei nuovi media, con progetti per aumentare i ricavi, far crescere la pubblicità, pensare a nuovi modelli.

Se ne parla in un articolo uscito nel sito di Nieman Lab: si spiega come l’editore americano Hearst stia esplorando una nuova strada nello sviluppo digitale dei periodici. Un modello diverso, alternativo a quello dei tedeschi di Axel Springer, gli unici ad aver passato con successo il guado che separa la carta stampata dal digitale. Springer ha pestato sull’acceleratore dell’e-commerce, Hearst coltiva lettori digitali.

L’articolo, scritto dal superconsulente Ken Doctor, esperto di carta stampata ed evoluzione digitale dei giornali, ha questi punti d’interesse:

1) Hearst è l’unico editore ad avere un discreto numero di lettori digitali negli Usa: un milione tra abbonati e acquirenti di singole copie digitali. Circa il 4% dei lettori dei 21 titoli della società.

2) L’editore di Cosmopolitan, a differenza di tutti gli altri editori di periodici, ha sviluppato una strategia che mette al centro il lettore digitale. Non chi legge carta e digitale insieme, ma solo il digitale. Come sappiamo, quasi tutti gli altri puntano invece a coccolare e a non perdere i propri lettori tradizionali, quelli della carta.
3) I lettori digitali hanno un profilo diverso dagli altri, più interessante per chi vende giornali: sono più giovani, più benestanti, disposti a spendere. Non a caso Hearst fa pagare l’abbonamento digitale più della carta. Non lo svende, come si fa di solito. Crea invece valore sulle nuove piattaforme, restituisce valore dopo anni di svendite e contenuti gratuiti.
4) La casa editrice sta elaborando nuove strategie anche nella vendita degli spazi pubblicitari. In parte se ne è già parlato su questo blog. Interessante un passaggio di questo nuovo articolo in cui si dice che Hearst è tornato a vendere spazi, lasciando alle agenzie il compito di creare spot e pubblicità per il digitale, anche con arricchimenti multimediali. Altri editori, invece, si sono trasformati anche in creatori di pubblicità. Time Inc, ad esempio. Un errore?
5) Secondo quel che si legge nell’articolo, la strategia seguita da Hearst mette questo editore in posizione di vantaggio, in vista del progressivo passaggio al digitale. Avrà competenze, lettori, conoscenze. Chi invece mira innanzitutto a tenersi stretti i propri lettori sulla carta, ha una prospettiva di breve termine, tre, cinque anni.
6) Il tablet viene visto come lo strumento su cui, in futuro, si leggeranno i periodici. Dicono un dirigente, citato nel pezzo, e l’autore dell’intervista:

“We knew when the iPad came out, we would finally be able to build our business.” The iPad revolution completely changed the magazine industry’s potential trajectory.

7) Un milione di lettori unicamente digitali sono pochi. Per il 2016 si prevede che saliranno al 10% del totale degli abbonati. Ancora poco. Ma è una strada su cui investire. Perché, per tornare a Hearst Usa, i costi di stampa e distribuzione sono il 30/40 per cento dei costi totali. Ridurli, grazie al digitale, significa far crescere i margini, il ricavo netto.

Il punto: come immaginare tempi e modi dello sviluppo digitale dei periodici.

Nieman Lab: l’esempio dei periodici americani di Hearst.

Nieman Lab

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Quanti tablet sono stati venduti negli Stati Uniti: un “adulto” su due possiede un device mobile

Più volte si è detto che il futuro digitale dei periodici passa soprattutto attraverso il tablet, l’unico strumento che, a oggi, consente di leggere un giornale con agio, senza costringere a stare seduti a un tavolo (nel caso dei computer) o a impazzire con uno smartphone dallo schermo ridotto. Un periodico richiede un formato grande, bella resa grafica, praticità.

Peccato che di tablet in circolazione se ne vedano ancora pochi.

Questa settimana è uscito negli Stati Uniti uno studio del Project for Excellence in Journalism dell’autorevole Pew Research Center sulla diffusione del tablet nel più grande mercato mondiale di periodici.

Viene fuori che un americano su tre (il 34%) possiede uno di questi device. Ma il dato più interessante dal nostro punto di vista, trascurato da chi ha riportato la notizia in Italia, riguarda le varie fasce di età. Se si considerano le persone tra i 35 e i 44 anni, si nota che è possessore di un tablet ben un americano su due.
Quindi la situazione è questa. I giovani non possono vivere senza lo smartphone, gli adulti hanno il tablet e le persone oltre i 65 anni sono devote alla carta (possiede un tablet il 18% di questa fascia).

Tra i trenta-quarantenni coloro che possiedono un tablet sono in genere persone con titolo di studio più alto e maggiore reddito. Non ci sono invece differenze significative tra uomini e donne, o tra bianchi, afroamericani, latini e altri gruppi etnici e razziali.

I risultati di questa indagine fanno ben sperare anche per l’Italia, dove la diffusione del tablet è per il momento contenuta, complice la crisi. Ma nel nostro Paese c’è un grande interesse per questi apparecchi e la maggiore disponibilità a spendere per acquistarli, come dice uno studio di Boston Consulting Group.

Pew Research Center: tablet negli Stati Uniti.

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Sempre più lettori per i periodici digitali – Una ricerca in Gran Bretagna

Una notiziola di qualche interesse, perché apre una prospettiva su cui riflettere.

Dunque, questa app per leggere i giornali su tablet, lekiosk, un’edicola virtuale, ha fatto una ricerca sulla lettura dei periodici e dei giornali sulle “tavolette”.

Pare che in Gran Bretagna la metà della popolazione abbia comprato e letto periodici digitali.

Dove si legge con il tablet? Nel 36% dei casi in salotto, nel 22% in camera da letto, nel 20% mentre si viaggia in bus o metro per andare al lavoro.

Il sondaggio, condotto su un campione di 2000 persone, ha inoltre rivelato che 1 inglese su 20, e 1 giovane su 10 tra i 18 e i 24 anni, legge più periodici digitali adesso di quanto facesse un anno fa.

La morale, riportata dal Guardian? Il futuro dei periodici è digitale. E lo strumento per la lettura sarà il tablet. Parola di lekiosk, parte in causa.

The Guardian: tablet e periodici.

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Per competere con Google non cercare di imitarlo, editore!

Come gli editori possono competere con Google e le grandi compagnie digitali non giornalistiche nella caccia alla pubblicità online? Un articolo uscito nel sito di Nieman Lab racconta le strategie di quattro realtà giornalistiche americane che si sono mostrate innovative.

Quel che mi colpisce della indagine di Ken Doctor, esperto di editoria di cui questo blog si è già occupato, è la messa a fuoco di un punto: gli editori di prodotti giornalistici non devono inseguire Google e le altre compagnie digitali sulla strada dei contenuti a basso prezzo. Da sempre la stampa propone contenuti premium, rivolti a fasce demografiche e sociali bene individuate, dunque appetibili per le aziende. Questo va fatto anche nel digitale. Altrimenti si è destinati a soccombere.

Sono concetti che aprono gli occhi a chi, come me, non s’intende di new media, lavora nella carta stampata e non riceve una formazione per capire le logiche del digitale.

Per dire… Facebook, che negli Usa raccoglie un quarto della pubblicità nel digitale, vende lo spazio agli inserzionisti a 80 centesimi di dollaro ogni mille impressioni, mille pagine viste. Ma a questi prezzi nessun editore può sopravvivere, perché produrre contenuti giornalistici costa molto, e non ci si sta dentro. Questo ormai mi è chiaro. Gli editori, dice Ken Doctor, vogliono, devono guadagnare da 20 a 50 volte di più.

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La pubblicità sui giornali oggi la raccolgo così – Nuove strategie nei periodici

Il globale, il locale: la mossa di un grande editore americano sulla pubblicità getta luce su analoghe iniziative di editori italiani. Concentrazione del volume di fuoco nella pubblicità, mettendo insieme le diverse piattaforme e più testate.

Ho messo insieme due notizie lette questo mese. Una sui magazine di Hearst a livello globale, l’altra su Mondadori.
Far uscire la stessa pagina pubblicitaria su tutti i giornali di un editore, anche quelli pubblicati all’estero, per moltiplicare la capacità promozionale. E guadagnare di più. Un’impresa difficile per tutte le case editrici. La pubblicità, infatti, è nel maggior numero dei casi legata a mercati locali. Nazionali.
Ma Hearst, l’editore americano di Cosmopolitan e Marie Claire, ha aperto una nuova divisione, Totally Global Media, che si occupa di questo in chiave puramente digitale. Per la prima volta sarà possibile far uscire inserzioni e campagne promozionali nelle versioni online dei giornali in diversi Paesi. Hearst possiede infatti un network internazionale con succursali straniere a gestione diretta (anche in Italia) e pubblicazioni date in licenza a editori stranieri. La divisione che si occupa di Totally Global Media ha due sedi, a New York e Londra, e sa di poter raggiungere un bacino di 200 milioni di utenti unici.
Funzionerà così: l’inserzionista paga una sola fee, tariffa, che include produzione, traduzione e hosting sui siti web di riviste presenti a livello internazionale.
L’offerta parla ai marchi internazionali come Burberry.
When my plane arrived in Beijing last year, there was a full-sized Burberry poster that just said Burberry.com with a picture of a purse—no Chinese characters,” Gina Garrubbo, svp of Hearst Magazines International and now the svp of TGM, said. “They have the same look and feel everywhere in the world.”
Quando sono atterrata a Pechino lo scorso anno, c’era un cartellone di Burberry su cui c’era la foto di una borsetta e la scritta Burberry.com. Niente ideogrammi cinesi, ha detto Gina Garrubbo, alla guida di Totally Global Media.
Mi ricorda molto questa cosa che ho letto sul rilancio di alcune testate Mondadori avvenuto in questi giorni. Tre giornali femminili, in versione rivisitata, sono stati presentati agli investitori come un’unica piattaforma pubblicitaria, con target diversificati, che permette di portare inserzioni e campagne promozionali a 3,6 milioni di lettrici e 5,3 milioni di utenti unici dei siti. Una mossa di sostegno alla pubblicità (seppur circoscritta all’ambito nazionale) che, a quanto pare, fa parte delle strategie presenti nella mente dei maggiori editori.
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Periodici: il dialogo tra versione per tablet e sito web delle riviste

Un’intervista. Al guru dell’editoria digitale. Parla Lewis DVorkin, capo dei contenuti di Forbes. Si discute delle applicazioni per tablet dei periodici. E del dialogo tra queste e il sito della testata. Una catena di trasmissione che moltiplica il coinvolgimento del lettore. La circolazione dei contenuti.

Riporto uno stralcio di un’intervista a DVorkin, vecchia conoscenza di questo blog, personaggio controverso (“informazione e pubblicità devono essere sullo stesso piano, avere pari dignità nei giornali”) ma stimolante.

Gli chiedono quale sia l’importanza del tablet per i periodici.

Ci sono varie ragioni per cui le riviste possono ricevere vantaggi dalle applicazioni per iPad e tablet.

La prima è la pubblicità. Qualsiasi azienda vuole che la sua pubblicità sia bella. Sui periodici le inserzioni sono valorizzate più che altrove per qualità della carta, della stampa, il formato grande. Ma sul tablet è ancora meglio. E in più c’è, ci può essere l’interattività.

Si parla dell’app di Forbes per tablet lanciata in gennaio. Non è una semplice copia del giornale ma una finestra sui contenuti del sito, aggiornati ogni giorno. E una finestra sulla parte social (condivisione, commenti, dialogo su Facebook, Twitter etc).

L’app per tablet è stata presentata dopo un gran lavoro sullo sviluppo del sito. Esempio. Quando è stato pubblicato il numero di Forbes sugli uomini più ricchi del mondo, l’applicazione per tablet aveva 1.900 link all’«underlying content on Forbes.com, both real-time and archival», 1.900 link al sito web sottostante, sia ai contenuti aggiornati di continuo sia agli archivi.

Insomma, il tablet è la superficie, il sito è la montagna nascosta. Bella immagine. Non ci avevo mai pensato. Mi fa capire qualcosa di nuovo.

Il Punto: come i periodici siano diventati realtà multipiattaforma, con espressioni diverse ma integrate.

Netnewscheck: il rapporto tra sito e tablet nei periodici.

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Idee da copiare nel nuovo sito di Newsweek /2

È stato lanciato questa settimana il nuovo sito di Newsweek. Ne ho parlato qui. Torno sull’argomento perché ci sono concetti da esplorare, laggiù. Come il rifiuto della logica delle breaking news, per il sito di un newsmagazine. E la rilevanza di immagini e strumenti di condivisione.

La passione per come vengono disegnati i giornali mi fa tornare sull’argomento: c’è molto da dire sul restyling del sito di Newsweek. L’obiettivo, dicono gli autori dell’operazione, è ricreare sul digitale l’esperienza del long form content, gli articoli lunghi, un compito svolto non bene, finora. Si sostiene che sfuggire alla logica delle breaking news è, per una pubblicazione settimanale, una raison d’etre.

“We felt there was still a place in the media landscape for taking a step back, reflecting, and framing the week…this idea that there’s been a set of editorial decisions about what the most important things are to focus on.”Here he’s talking about the irritating, pageview-grabbing tactics like splitting long articles up into a dozen smaller chunks, hiding visual content behind endless, slow-moving slideshows, and throwing any and all news against your screen in the hope that some of it will stick.

Abbiamo pensato che c’era ancora uno spazio, nel panorama dell’informazione, per fare un passo indietro, riflettere, e sezionare la settimana… l’idea che una serie di valutazioni editoriali giustifichino la scelta di quali siano gli avvenimenti su cui concentrare l’attenzione. Superando le irritanti strategie che portano, per fare più pageview, a spezzare gli articoli, mortificare l’immagine con noiose foto gallery, trucchetti per far girare le news.

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Ridisegnando Newsweek – Come deve essere il sito web di una rivista

Ho iniziato a leggere l’articolo di Nieman Lab intitolato Shetty talks Newsweek’s relaunch, user-first design, magaziness, and the business model, sul rilancio della rivista d’attualità statunitense Newsweek e la presentazione della versione beta del sito, pensando che la cosa interessante fosse capire come un newsmagazine, tipo l’Espresso e Panorama, possa riproporsi come sito web leggibile e di successo.

Mi sono trovato invece davanti a cose, spiegate da Baba Shetty, amministratore delegato di The Newsweek Daily Beast Company, che edita appunto Newsweek, che possono avere una validità per qualsiasi rivista voglia affermarsi nel mondo digitale.

Di cosa parlo. Shetty spiega come è stato ridisegnato il sito di Newsweek, il newsmagazine americano che dal 2013 esce solo in digitale, avendo dato l’addio alle edicole e all’edizione cartacea.

Nell’articolo si parla di tante cose, dall’accesso a pagamento al sito di Newsweek (che scatterà più avanti: correte dunque a vedere com’è newsweek.com, fino a quando è free) a come fare pubblicità in modo intelligente nel web.

Ma all’inizio di questa intervista pubblicata da Nieman Lab, fondazione per il giornalismo dell’università di Harvard, Shetty elenca quali caratteristiche di un magazine devono essere conservate nel sito web della rivista.

Ecco che salta fuori il concetto di magazineness, l’essenza del magazine. Cos’è un periodico? Cosa di un periodico deve essere conservato nel digitale, per riprorre al lettore la stessa esperienza di lettura della carta?

Il concetto di magazine viene decostruito.

Non c’è imitazione del giornale cartaceo, ma si conservano i concetti.

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Cosa succede se non leggi più il giornale a colazione – Lo stato dei media nel 2013

Il giornalismo sta attraversando un periodo di grandi opportunità, non solo di bilanci in rosso? Alan Murray, ex giornalista del Wall Street Journal e presidente del Pew Research Center, spiega invece qual sia l’esatta condizione dei giornali. Si va al punto: la perdita di pubblicità, l’irrilevante crescita delle copie vendute, la frammentazione dei new media.

Prima di lasciare spazio all’entusiasmo per il digitale, bisognerebbe capire cosa sta succedendo al giornalismo e quali saranno le conseguenze per le testate e per chi ci lavora. Una sintesi viene fatta da Alan Murray, per cinque anni responsabile dello sviluppo digitale del Wall Street Journal, presidente da alcuni mesi del prestigioso Pew Research Center, organizzazione no profit che ogni anno rilascia un rapporto sullo Stato dei media. Potete ascoltare l’intervento di Murray alla George Washington University School of Media and Public Affairs. Ma ho selezionato alcuni punti e li ho sintetizzati in italiano. Potete leggerli qui sotto.

Sì, anche al Wall Street Journal, grazie al digitale, l’audience complessiva non è mai stata alta come in questi anni. 10, 15 volte superiore a quella che il giornale ha avuto nel periodo d’oro. Questo significa che il Wall Street Journal è in grande salute? Purtroppo no. In tutto il mondo avanzato, a causa dell’esplosione della comunicazione digitale, non c’è più un modello di business per i giornali, non si è ancora trovato il modo per ripagare e tenere in piedi il business.

 

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In Sud Africa Playboy sarà solo digitale. Non per mancanza di lettori

Playboy abbandona la carta e diventa un giornale interamente digitale in Sud Africa. La società che edita la testata ha fatto sapere che la principale ragione dello spostamento è culturale: in un paese in cui ancora molte persone non si sentono a loro agio quando vengono viste mentre comprano il loro giornale preferito in un luogo pubblico, il digitale offre una soluzione che tutela la riservatezza. In questo caso non si potrà dire che il passaggio al digitale di una rivista è legato allo scarso interesse dei lettori, come invece Newsweek.

Playboy ha in Sud Africa un’estensione social di tutto rispetto, con 150 mila fan su Facebook, 25 mila follower su Twitter e 100 mila follower Twitter complessivi tra società che edita e playmate. Il traffico digitale ha incrementi mensili a due cifre.

M’interessa perché: 1) la riservatezza, non è anche questa un diritto? 2) il passaggio al digitale può favorire determinate riviste (date un’occhiata al prossimo post su Singapore).

Playboy digital-only in Sud Africa.

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Morte dei blog o dei periodici? – Una riflessione di Andrew Sullivan

La polemica sulla fine dei blog. Ripresa da uno dei blogger più famosi, Andrew Sullivan. Un uomo, un brand. Ma la discussione ributta la palla nel terreno dei periodici. Sono i magazine quelli che più risentono della transizione al digitale dell’informazione.

Il post di Sullivan prende le mosse da un articolo di Marc Tracy per New Republic, rivista di politica e cultura con impronta liberal nata nel 1914. Il quale ragiona sulla morte dei blog, la certifica e porta come prova le trasformazioni del blog di Sullivan, The Dish.

We will still have blogs, of course, if only because the word is flexible enough to encompass a very wide range of publishing platforms: Basically, anything that contains a scrollable stream of posts is a “blog.” What we are losing is the personal blog and the themed blog. Less and less do readers have the patience for a certain writer or even certain subject matter.

Avremo ancora blog, naturalmente, perché il mondo è abbastanza capiente da contenere un’ampia gamma di piattaforme di pubblicazione. Di fatto, qualsiasi cosa contenga una pagina scorrevole con una successione di post è un “blog”. Quel che stiamo perdendo è il blog personale e il blog a tema. Sempre di meno i lettori hanno la pazienza di andarsi a leggere un certo autore o di seguire una certa materia, e solo quella.

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I giornali hanno qualcosa da imparare dalla Apple?

Qualcosa da imparare da iTunes, l’applicazione lanciata dieci anni fa da Apple, ciambella di salvataggio dell’industria discografica presa d’assalto e saccheggiata da Napster e dalla pirateria online. Si era affermata l’idea che non ci fosse da pagare per scaricare dischi. Un atteggiamento simile a quello indotto nei lettori di giornali dalla informazione distribuita gratuitamente su internet.

«Il cielo stava cadendo a pezzi e iTunes fornì un luogo dove avremmo fatto soldi con la musica e, in teoria, fermato la marea della pirateria. Per quel momento, è stata la soluzione del problema» spiega un pezzo grosso dell’industria discografica al Denver Post, un articolo che riporto nel link alla fine di questo post.

Trovo delle somiglianze tra il passaggio al digitale della musica e i giornali.

Avrete letto…

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14 incredibili copertine che raccontano l’America hip hop

Le copertine delle riviste raccontano il loro tempo più di tante parole. Quelle dei giornali per le nuove generazioni o le minoranze, come Vibe, bimestrale di cultura Hip Hop e R&B americana, spalancano il mondo dei segni. Idoli, look, sessualità, messaggi politici lanciati con il corpo. Sono come quei piccoli quadri con le figure dei santi appese alle pareti per l’adorazione del fedele perché indicano la Via: icone.

Creo una gallery di copertine di Vibe prendendo spunto da una notizia di questi giorni: la storica testata, lanciata nel 1993 dal geniale musicista e producer Quincy Jones, è stata venduta a un nuovo editore, SpinMedia (ex BuzzMedia). Paga il calo della pubblicità, che flagella i periodici di ogni parte del mondo, e la flessione dei lettori (Vibe ha una diffusione di 300 mila copie. Il sito ha 1,4 milioni di visitatori unici e 1,6 milioni di video visti al mese). La nuova proprietà preannuncia investimenti nel sito. Entro il 2013 Vibe cesserà le pubblicazioni cartacee per vivere solo nella dimensione digitale. Proprio come successo a SPIN, di propietà dello stesso nuovo editore.
Ma la monumentalità delle copertine è irriproducibile nel digitale.
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Copie digitali vendute dei periodici: 3 ragioni per non strapparsi i capelli

Poche sono poche. Ma così poche che viene voglia di guardare più da vicino i dati sul numero delle copie digitali dei settimanali e dei mensili italiani vendute nel febbraio 2013. L’occhio lungo di chi lavora da molti anni nei periodici insegna a veder cose che a voi umani…

I dati Ads sulle copie digitali dei settimanali e mensili, appena usciti, sono deludenti, come avevo scritto senza grande fantasia un mese fa parlando della rilevazione relativa al gennaio 2013, la prima in assoluto fatta in Italia: fino ad allora non erano mai state contate. Sinceramente non era poi un gran problema: prima di quella data erano pochissimi i periodici con un’edizione digitale.

Ecco una prima ragione per non pensare che i periodici abbiano più difficoltà dei quotidiani a vendere copie online: gli editori sono appena entrati nel ring, hanno appena iniziato a proporre questo servizio.

Ma ci sono altre cose che molti non hanno visto. Guardate i titoli dei periodici più venduti nel digitale.

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La crisi dei periodici e la risposta di un editore in Gran Bretagna

Trainata dal mensile femminile Good Housekeeping, Hearst in Gran Bretagna regge bene alla crisi della carta stampata. Nel suo arco ci sono tre armi: giornali di gamma alta che non perdono pubblicità, un amministratore delegato “sgamato” e un uomo che viene da Microsoft, proprio come Pietro Scott Jovane.

L’articolo del Guardian, che ogni domenica fa l’esame del sangue a un editore britannico, parte dall’ottima performance di Good Housekeeping, il mensile femminile di servizio pubblicato in Gran Bretagna da Hearst, editore americano presente in tutto il mondo, Italia compresa.

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Negli Usa taglio netto alla pubblicità nella carta stampata

Dove vanno i soldi per la pubblicità? Secondo l’American Marketing Association and Aquent, la carta stampata subirà il taglio maggiore di investimenti da parte delle aziende nel 2013.

Il 28% per cento degli investitori intervistati per il sondaggio dice di voler ridurre il budget destinato ai periodici, un calo secondo solo a quello dei quotidiani, dove la discesa stimata sarà del 32%. Riduzioni, seppur minori, per la radio e la televisione.

L’articolo di Minonline fa vedere dove gli investimenti in comunicazione saranno indirizzati: il digitale. Questa l’opinione generale.

L’82% prevede di far crescere la propria presenza nel mobile, area molto promettente per i periodici (smartphone, tablet e un pizzico di smart tv, la televisione che si connette a internet), il 76% vuole essere più incisivo nei social media, di conseguenza ha aumentato il budget destinato a operazioni in questo ambito.

M’interessa perché: 1) il calo della pubblicità, un tempo principale voce di ricavo nella stampa, sembra destinato ad aumentare in quotidiani e periodici; 2) resistono alla disfatta o al rallentano solo i marchi forti, i power brand, gli editori che offrono prodotti di alta qualità; 3) nel quadro di incertezza generale, fioccano notizie a volte contraddittorie, sintomo di un mondo (della comunicazione aziendale e giornalistica) che non sa dove andare.

Minonline: le aziende riducono investimenti nella carta stampata

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Il sito di cucina e il ritardo dei giornali italiani nel digitale

Gli appassionati di cucina se ne sono accorti lo scorso ottobre: su internet è comparso un sito di cucina che è una potenza. Ma non è italiano. Si chiama Allrecipes.it e contiene video che vanno vedere, passo a passo, come si prepara un piatto. A differenza di Giallozafferano.it, il più noto sito italiano del genere, in Allrecipes.it non compare il volto di alcun cuoco, è tutto anonimo.
Si tratta del primo sito di ricette online al mondo con più di 1 miliardo di visite annuali. Proprietario del sito è un grande editore di periodici, Meredith, quello di Better Homes and Gardens e di Parents and More.
La storia di questo successo ha, a mio avviso, due insegnamenti.
Il primo chiama in causa gli editori italiani: il ritardo nello sviluppo digitale dei nostri giornali e brand è testimoniato dal fatto che il principale sito di cucina al mondo non sia italiano ma sia stato ideato e portato al successo in un Paese che non ha una tradizione culinaria paragonabile alla nostra. Che poi questo arrivi in Italia e s’imponga ha dell’incredibile. È come se una catena americana di punti ristoro soppiantasse le pizzerie napoletane.
Il secondo aspetto ha più a che fare con il business. Meredith sta perseguendo una strategia che aiuta a compensare il calo dei ricavi nella pubblicità. Per questo l’editore sta diversificando, investendo nel digitale, e spinge in modo aggressivo i propri brand su internet, tv, nel mercato delle app per tablet e smartphone.
Ci sta riuscendo: due mesi fa proprio Meredith si era candidata all’acquisto delle testate di Time Warner.

Il Punto: le strategie di un grande editore americano per rispondere alla crisi dei giornali di carta.

Meredith press office: espansione in Italia e Turchia

Zacks.com: Meredith investe in Italia e Turchia

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2) La pubblicità, vera incognita per il futuro dei giornali

Seconda puntata su giornali e pubblicità nel digitale. Si parla del mobile. I tablet e gli smartphone hanno creato uno spazio di sviluppo per i periodici. Ma la lentezza degli editori rischia di avvantaggiare le multinazionali tech. Google, Facebook, YouTube stanno investendo massicciamente nella pubblicità associata ai contenuti per questi apparecchi. La strada per le riviste è in salita.

Riprendo la riflessione iniziata lunedì con un post gemello. Lo spunto è offerto dal rapporto del Project for Excellence in Journalism del Pew Research Center di Washington DC intitolato: The State of the News Media 2013.

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I giornali italiani iniziano a guadagnare con i tablet e gli smartphone

Dove si parla di tablet, smartphone, Internet e della crisi dei media tradizionali. Delle prospettive di crescita per gli editori nel digitale. E delle potenzialità della smart tv, la televisione che si collega alla Rete.

«Gli algebristi, gente sempre utile al pubblico» scriveva Voltaire. Viene da pensarlo leggendo alcuni virgolettati sui dati presentati in questi giorni dall’Osservatorio New Media & New Internet del Politecnico di Milano. Ma dalla nuvola di numeri, percentuali e sigle in Inglese per definire come cambia il mondo della comunicazione, emergono notizie che s’inseriscono nel flusso di riflessione ad alta voce di questo blog.

Ho capito che:

1) Il mondo digitale, sia quello più consolidato dei siti web (Old Internet) sia quello nuovo legato agli smartphone, ai tablet e alle smart tv (le televisioni che si collegano alla rete: ne sono state vendute in Italia 2,5 milioni), il cosiddetto New Internet, il mondo digitale, si diceva, continua a crescere e a far soldi. Togliendo però spazio e risorse ai media consolidati: televisione, radio, carta stampata, calati in cinque anni del 25%.

Media tradizionali e New Media

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La pubblicità, vera incognita per il futuro dei giornali

Solo una piccola parte della pubblicità pagata su internet affluisce alle testate giornalistiche. Tutto il resto è bottino spartito tra i giganti della tecnologia: Google, Facebook, YouTube. Per questo il futuro di quotidiani e periodici è sotto scacco. È quanto emerge da The State of the News Media 2013, il rapporto del Project for Excellence in Journalism dell’autorevole Pew Research Center di Washinghton Dc.

Scrivo questo post pensando a un giornalista italiano decisamente conosciuto che un giorno, ai tempi delle mie prime esperienze in redazione, mi ha fatto questa domanda, un po’ retorica: sai dirmi qual è il limite più grande alla libertà dei giornalisti? Vista l’aria che tirava, veniva spontaneo rispondere che l’ostacolo maggiore è la mancanza di democrazia. «No, il limite più grande sono i soldi. Se non hai le risorse economiche per andare là dove avvengono i fatti, Palermo, Tunisi, New York, non sei un giornalista che possa fare bene il suo lavoro».

Ma da dove provengono le risorse per la maggior parte dei giornali? (Segue noitizia).

È il problema più grande per il futuro dei giornali, la vera incognita sulla strada del passaggio al digitale dei quotidiani e delle riviste di tutto il mondo. Oltre alle difficoltà di convincere i lettori a pagare per i contenuti giornalistici digitali, dopo anni di informazione gratuita nel web attraverso gli aggregatori di notizie come Google News, la strada viene sbarrata dalla difficoltà di raccogliere la pubblicità.

Il Pew Research Center spiega che le cinque maggiori compagnie presenti nel mondo digitale, nessuna delle quali è un editore, vale a dire Google, Yahoo, Facebook, Microsoft e AOL, incassano nel 2012 il 64% delle inserzioni pubblicitarie del web. La stessa percentuale del 2011. Gli editori hanno un ruolo minore, anzi, marginale. Uno scenario che verrà confermato nell’anno in corso.

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L’altra faccia del Sole 24 Ore, primo quotidiano digitale italiano

Leggendo i conti del Sole 24 Ore viene da fare un’amara riflessione sullo sviluppo digitale dei giornali. Parto dal primo quotidiano economico italiano, ma temo che la mia considerazione abbia un valore generale.

Domanda: come si possono far crescere i ricavi digitali di un importante giornale, fino a vederli diventare il 31 per cento del fatturato, come al Sole 24 Ore nel 2012?

Risposta: basta guadagnar meno con le altre attività (pubblicità, copie cartacee, altri asset del Gruppo) e il peso del digitale aumenta nel mix complessivo.

Se il resto va male, la piccola quota di attività digitali diventa rilevante.

Infatti il Sole, “primo quotidiano digitale in Italia” (46.190 copie giornaliere), registra davvero una crescita rilevante delle copie digitali vendute, tanto da superare la concorrenza del Corriere della Sera e di Repubblica, ma chiude il 2012 con un rosso di bilancio di 45,8 milioni di euro. Colpa, in particolare, del crollo del 16 per cento dei ricavi pubblicitari (ma ci sono altre voci, come azioni straordinarie e oneri di ristrutturazione).

Con una punta di ironia potremmo dire che c’è una somiglianza con il New York Times secondo quanto messo in luce dal superesperto Ken Doctor nel sito di Nieman Lab. Anche nel caso del terzo quotidiano più venduto degli Stati Uniti si sono visti negli anni un calo vertiginoso della pubblicità e la tenuta dei ricavi da diffusioni. Fino alla presa d’atto collettiva, negli Usa, che i quotidiani, tutti i quotidiani, devono archiviare il vecchio modello che prevedeva un rapporto tra entrate pubblicitarie ed entrate da copie di 80 a 20. Si torna alla centralità del lettore (e ci si deve accontentare di fare meno ricavi). Ma il New York Times ha trovato un equilibrio economico. Il Sole24, invece, è in difficoltà. Per mille ragioni. Non il solo.
Sole 24 Ore: il Sole primo quotidiano per ricavi digitali

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Rapporto 2013 sullo Stato dei Media del Pew Research Center

Il Pew Research Center ha rilasciato questo pomeriggio il Rapporto 2013 sullo Stato dei media americani.

Merita una lettura attenta e meditata, come sempre.

Leggete l’Overview.

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Primi dati sulle copie digitali vendute dei periodici italiani

Irrilevanti le copie digitali dei settimanali italiani vendute nel gennaio 2013. Per la prima volta è stata fatta una rilevazione ufficiale (dati di Ads)e il risultato mostra che: 1) per i periodici le copie digitali replica non hanno ancora alcun peso reale (ma è da capire il dato di Sorrisi Tv; i giornali che precedono in classifica la guida tv sono in abbinamento con un quotidiano); 2) i quotidiani sono più avanti delle riviste nella transizione al digitale. Non stupisce: “vendono” news.

Settimanali digitali
(copie  + vendite multiple + vendite abbinate)
D LA REPUBBLICA DELLE DONNE 46.184
IO DONNA 45.918
VENERDI’ DI REPUBBLICA (IL) 45.788
SPORT WEEK 15.518
SORRISI E CANZONI TV 10.300
TU STYLE 5.030
ESPRESSO (L’) 2.713
TOPOLINO 1.311
GRAZIA 1.202
NOVELLA 2000 876
A – ANNA 812
PANORAMA 806
AUTOSPRINT 762
MOTOSPRINT 681
VISTO 653
CHI 501
OGGI 467
DONNA MODERNA 343
MONDO (IL) 311
FAMIGLIA CRISTIANA 164
CENTONOVE 0
CIOE’ 0
CONFIDENZE 0
DIPIU’ TV 0
DIVA E DONNA 0
DOLOMITEN MAGAZIN 0
F 0
FF-SUDTIROLER WOCHENMAGAZIN 0
GENTE 0
GIOIA 0

Ads Gennaio 2013
totale vendite digitali
Quotidiani digitali
(copie  + vendite multiple + vendite abbinate)
SOLE 24 ORE (IL) 46.190
REPUBBLICA (LA) 45.996
CORRIERE DELLA SERA 45.616
GAZZETTA SPORT-LUNEDI (LA) 15.549
GAZZETTA SPORT (LA) 15.541
FATTO QUOTIDIANO (IL)

Il Punto: quanto i settimanali possano fare affidamento, per ora, sul digitale.

primaonline: copie digitali settimanali
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Editori globali che investono nel digitale (ci sono Rcs Mediagroup ed Espresso)

Nello studio di Fieg, la federazione degli editori italiani di giornali, intitolato La Stampa in Italia 2010-2011, ho trovato una tabella che rimane attuale, anche se risale a qualche mese fa.

Risponde alla domanda: di quanto sono in ritardo gli editori italiani nello sviluppo di una dimensione digitale per i giornali?

Mentre alla domanda su quale sia l’editore italiano più avanti nel processo, è facile rispondere: Rcs Mediagroup. Ma c’è anche il Gruppo l’Espresso.

Editori e digitale

Noto che compare in quarta posizione l’editore tedesco, dalle dimensioni internazionali, Axel Springer, di cui questo blog si è occupato anche di recente. Ma la prima è Naspers (broadcaster sudafricano dalle dimensioni globali: è presente anche in Cina), seconda Schibsted (conglometrato norvegese), terza la britannica Pearson….

Trovate l’originale nella pagina studi della Fieg.

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Piani di crisi, editori, giornali e l’entusiasmo degli italiani per i tablet

Piani di crisi, riorganizzazione delle redazioni, cessioni e chiusure di testate, esuberi tra i giornalisti, licenziamenti. Ma cosa c’è davvero nella testa degli editori di periodici (e di quotidiani) che negli ultimi mesi, uno dopo l’altro, hanno avviato pesanti ristrutturazioni? (Prima parte).

Che cosa abbiano in mente lo spiegano le società di consulenza che hanno seguito, senza gridarlo in piazza, i progetti di riorganizzazione e le strategie per il futuro. Che i piani possano funzionare, lo vedremo. Che siano accettabili, lo dicano altri.

Riporto con una serie di post i contenuti di uno studio presentato alcuni mesi fa da una multinazionale di ricerca e, appunto, di consulenza: Boston Consulting Group.

La prima cosa che mi ha colpito è un passaggio sullo sviluppo digitale (un passo che tutti gli editori dovranno compiere). Si tratta di questo: l’entusiasmo del pubblico per i tablet.

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Video: giornalista intellettuale, giornalista digitale

Ci ho pensato su molto prima di scrivere questo post. Distinguere tra giornalisti vecchi e giovani è, di questi tempi, argomento delicato. Ma è un tema che attraversa l’ambiente giornalistico.

Il video di questo post è stato pubblicato sul blog di Forbes. Parla Lewis DVorkin, Chief product officer della testata americana, prestigiosa, con una storia, ma molto cambiata in questi anni. Ne trovate una descrizione su «Breaking News» del professore Clayton M. Christensen della Harvard Business School (ampiamente ripreso da Futuro dei Periodici).

Forbes ha ancora una redazione, ma ogni giornalista coordina un gran numero di freelance, che fanno parte di una rete di 1000 contributors, tra scrittori, docenti universitari, giornalisti, esperti vari, businessmen, tutti specializzati in determinati soggetti. Postano le loro storie e rispondono dei risultati in termini di utenti e pagine viste (individual metrics). Il 25 per cento del budget della testata viene speso in collaboratori, i quali scrivono ogni anno circa 100 mila post.

Arrivo al dunque.

DVorkin descrive la differenza tra i giornalisti tradizionali, quelli che oggi hanno approssimativamente dai 50 anni in su, e la nuova ondata di giornalisti. Dice di aver partecipato qualche tempo fa a una rimpatriata tra ex colleghi di Newsweek, penne famose negli anni Ottanta, e di essere rimasto colpito come da uno schiaffo per la differenza tangibile tra questa generazione, che continua a lavorare come se nulla fosse cambiato, e i giovani di Forbes. 

«Very few “star” journalists of that time and space have made the trip to the digital world. Most of those I spoke with and saware pretty much doing what they did 20 and 30 years ago. They’re doing it for traditional media companies that haven’t changed much either, although executives at each have convinced themselves otherwise. Those no longer working romanticized about the past».

Parental advisory: questo video potrebbe essere ritenuto offensivo. I giovani potrebbero veder mascherato, sotto il tono elogiativo, lo sfruttamento che avviene in tante realtà giornalistiche. I «vecchi» potrebbero avvertire un implicito invito a farsi da parte. Condivido le preoccupazioni di entrambi.

Tutto questo e altro ancora emerge dal video di Lewis Dvorkin sulla nuova generazione di Forbes. Ma la sostanza è buona, anche se ampiamente irrorata di succo autopromozionale: il modo di lavorare in molte redazioni è cambiato.

Il Punto: com’è cambiato il mestiere di giornalista.

Forbes: la new wave di giornalisti

Forbes 2

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Le sfide di Bauer, editore di periodici leader in UK

Bauer Media è il principale editore di periodici (consumer magazine) in Gran Bretagna. Un pezzo di The Guardian, che riporto in link alla fine di questo post, fa il ritratto della società. E aggiunge alcune annotazioni saporite anche per il lettore italiano. Si capisce sulla base di quali parametri deve essere giudicato oggi un editore di periodici.

Bauer, editore tedesco che gioca su una scacchiera mondiale, tanto da aver acquistato la scorsa estate il principale editore di periodici dell’Australia, brilla in Gram Bretagna per due titoli: Closer, lanciato nel 2002, fatturato 9 milioni di sterline; Grazia Uk, pubblicato dal 2005, settimanale che ha ricavi, si stima, per 4/5 milioni di steline.

Complessivamente la società, che ha il quartier generale ad Amburgo, edita 56 periodici e raggiunge 19 milioni di lettori ogni settimana.

Paul Keenan, chief executive di Bauer Media in inghilterra, ha dichiarato che la priorità per il Gruppo è lo sviluppo digitale per i brand  principali. A partire dalla app di Grazia.

«La carta stampata continuerà a essere un media che coinvolge la gente con degli interessi, delle passioni. Svilupperemo i nostri prodotti di carta ma li circonderemo con estensioni digitali che li rendano ancora più coinvolgenti e completi».

Invece Douglas McCabe, un analista dei media, ha commentato in questo modo, per The Guardian: «Il principale problema per Bauer è come intendono affrontare la partita del mobile in un mondo in cui la diffusione di smartphone, tablet ed e-reader, cresce proprio nel territorio in cui Bauer è più forte: il mass market».

Nell’articolo c’è una scheda con i principali dati di bilancio di Bauer.

Il punto: cosa deve fare un editore di periodici per restare a galla e prosperare nel mondo digitale.

The Guardian: Bauer, editore di Grazia Uk

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L’informazione gratis su Internet? No, per i media digitali si spende di più

Un editorialista e blogger del New York Times, Nick Bilton, si è messo a fare i conti di quanto ha speso nel 2012. E si è accorto con sorpresa di aver sborsato 2 mila 403 dollari per una sola categoria di acquisti.

No, non è l’abbigliamento. E neppure l’ultima vacanza alle Hawaii.

Bilton ha speso 2 mila 403 dollari in media digitali.

Per un decennio abbiamo sentito ripetere il mantra della gratuità di Internet. Amico, non dovrai più spendere niente, dal web potrai scaricare gratis e a volontà film, programmi tv, libri, notizie, articoli, musica, giochi.

Non era vero. Queste previsioni apocalittiche erano sbagliate.

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